Full Monty – Squattrinati organizzati

Milano, 12.10.2015
 
REGIA: Peter Cattaneo SCENEGGIATURA: Simon Beaufoy FOTOGRAFIA: John de Borman MONTAGGIO: Nick Moore, David Freeman   MUSICHE: Anne Dudley INTERPRETI: Robert Carlyle, Tom Wilkinson, Mark Addy, William Snape, Steve Huison, Paul Barber, Hugo Speer, Lesley Sharp, Emily Woof, Deirdre Costello, Paul Butterworth, Andrew Livingstone, Vinny Dhillon, Kate Layden, Joanna Swain, Kate Rutter, June Broughton, Diane Lane (II), Muriel Hunt, Dave Hill, Bruce Jones, Glenn Cunningham, Chris Brailsford, Steve Garti, Malcolm Pitt, Dennis Blanch, Daryl Fishwick, David Lonsdale, Fiona Watts, Theresa Maduemezia, Fiona Nelson, The British Steel Stockbridge Band PRODUZIONE: Uberto Pasolini per Redwave DISTRIBUZIONE: Fox Searchlight Pictures (1998) DURATA: 91 Min
 
A Sheffield, maggior centro siderurgico britannico, sono finiti i bei tempi degli anni ’60. Acciaierie e fabbriche hanno chiuso i battenti, il lavoro si è automatizzato e molti operai sono stati licenziati. Tra questi c’è Gaz, separato dalla moglie alla quale è stato affidato anche il figlio adolescente che però, nonostante tutto, è disposto a dare ancora fiducia al padre. Intorno a Gaz si muove un gruppo di amici, tutti disoccupati ed in cerca di una soluzione. C’è anche Gerald, che era un dirigente, e che ancora non ha trovato il coraggio di dare la notizia alla moglie. Alla ricerca di un occasione, Gaz lancia l’idea di allestire un numero di striptease per raggranellare qualche soldo.
 
Ad oggi il maggior successo del cinema inglese il film, prodotto da un intelligente futuro regista (Umberto Pasolini) resta uno dei debutti più interessanti per la sua capacità di raccontare in modo leggero, ma non meno efficace, il dramma della disoccupazione.
 
LA CRITICA
 
“Nonostante l’apparenza, ‘The Full Monty’ riesce a circondare di ironia e discrezione un argomento scabrosetto, dispensando garbo e humour lungo tutta una commedia rosa che intreccia estro italiano e aplomb britannico. Ma il film va oltre e, al di là di una sapida vicenda che non scade quasi mai nella volgarità, fa risaltare gli aspetti della disoccupazione anche sul piano psicologico e familiare. E lo fa con equilibrio, evitando il facile patetismo e il sermone a sfondo sociale. Tanto da guadagnarsi quattro candidature all’Oscar”. (Enzo Natta, ‘Famiglia Cristiana’, 1 aprile 1998)
 
“Viene il sospetto che ‘The full Monty’ parli di disoccupazione ma predichi la riappropriazione; insegnandoci ad amare il nostro corpo più del nostro ruolo, lavorativo o sociale. Balleranno una sola estate, ma intanto ballano. Perfino il caporeparto, riassunto alla Vigilia del gran debutto, sta per buttare la spugna ma ci ripensa: tanto “hai tutta la vita per stare in giacca e cravatta”. (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 15 marzo 1998)
 
“‘The Full Monty’ non è affatto ‘carino’ come dice il ministro Ciampi, non ‘racconta con leggerezza un dramma’ come ritiene Sergio Cofferati. È invece un bel film intelligente, serio, sensibile, senza schematismi né moralismi, pieno di rispetto, comprensione, simpatia per i protagonista, ricco di notazioni sociali e psicologiche molto sottili”. (Lietta Tornabuoni, ‘L’Espresso’, 26 marzo 1998)
 
“La miscela fra humour proletario inglese e commedia italiana dà vita a un film stringato, molto divertente e a tratti tenero, soprattutto nei momenti in cui ciascun personaggio deve fare i conti con la moglie, i figli, la famiglia. ‘Full Monty’ è scritto benissimo da Simon Beaufoy e recitato magnificamente da un cast in cui spicca Robert Carlyle, ma il migliore è forse Tom Wilkinson nel ruolo di Gerald. La regia dell’esordiente Peter Cattaneo è invece poco più che corretta, epperò funzionale alla storia. Deliziosa la colonna sonora (con vecchie perle di Donna Summer e Hot Chocolate) e molto buono il doppiaggio curato da Tonino Accolla. Dopo averne tanto sentito parlare, vi resta un’unica cosa da fare: andare a vederlo”. (Alberto Crespi, ‘L’Unità’, 15 marzo 1998)
 

 

Ancora grazie, Mrs. Thatcher. Anche il (quasi) debutto di Peter Cattaneo si inserisce in quel filone del cinema inglese che si guarda indietro con rabbia corretta col grottesco al suono della banda. Ha detto bene il produttore Pasolini: The full monty è Ken Loach dopo una sbornia. Il risultato di questo piccolo grande film che ha moltiplicato per 60 i 5 miliardi spesi, è un miracolo di ironia, misura, intelligenza. Non sprecate l’aggettivo “carino” invano, perché il regista parte da un riscontro duro con la realtà: l’umiliazione dell’ozio coatto, il deteriorarsi dei rapporti affettivi. Poi la storia scritta da Simon Beaufoy prende il via con una tale precisione di ruoli ed effetti che i sei “caratteristi” sono complementari e contrapposti – il grasso, il magro, il borghese ballerino, il gay velato, il superdotato, il nero – e scoprono insieme con virile meraviglia il proprio corpo sconosciuto, invidiando Jennifer Beals e snobbando i residuati d’ipocrisia borghese. Non solo c’è un’idea geniale alla base – sei rudi metalmeccanici disoccupati di Sheffield, ex capitale dell’acciaio, per sopravvivere hanno l’idea di esibirsi in uno show di strip-tease – ma è geniale il percorso narrativo, cosparso di tante, esatte, pungenti e non casuali osservazioni psicosomatiche. E di fini attenzioni per questo ex sesso forte che svende le proprie peculiarità e si concede, con inquadratura fissa da dietro, allo strip integrale, appunto il “full monty” con tanga rosso al vento. Cattaneo è straordinario nel non sovraccaricare le trovate (anzi), evita i trabocchetti volgari, suggerisce doppie verità e letture, avendo scelto una compagnia di attori non divi (la star è Robert Carlyle), in cui nessuno sbaglia una mossa, un passo, un’occhiata, ottenendo subito una totale complicità emotiva-sindacale dal pubblico. Tifiamo per l’Oscar. E’ una delle rare volte in cui si ride senza pentirsi: anche perché la raccolta di questi poveracci, così folk, sottintende un bel messaggio di umana solidarietà, merce rara e protetta da un’ironia che più inglese non si può (del resto hanno loro il copyright della rivoluzione industriale). E’ uno di quei film che, senza far la voce grossa ma mixando realismo e parabola, riconciliano col cinema, mandandoci a casa con qualche dubbio sulla solitudine (marxiana e marziana) di chi ha perso lavoro e dignità in un colpo solo (Maurizio Porro – Corriere della sera)