I protagonisti: Gian Battista Cavazzuti

Milano, 21.3.2022

Si sono tenuti sabato 19 marzo i funerali di Gian Battista Cavazzuti, spentosi all’età di 91 anni.
Una bella testimonianza del suo impegno sindacale è raccolta nell’intervista che segue, realizzata alcuni anni fa da Costantino Corbari, giornalista e già responsabile Ufficio stampa della Cisl Lombardia.

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006.

Sono nato a Modena il 16 settembre 1930, primogenito di 9 figli. Mio padre, Alfonso, era medico condotto, mentre mia madre, Marta Giuffredi, ha insegnato matematica fino al matrimonio, quando ha dovuto lasciare il lavoro per dedicarsi alla numerosa famiglia. Ho abitato a Modena fino al 1943 poi a causa della guerra siamo stati costretti a scappare a Sorbara da sfollati, in una vecchia casa di proprietà della famiglia del papà, che era numerosissima. In sostanza, vivevamo ammonticchiati gli uni sugli altri. Poco prima del termine della guerra siamo tornati in città, nella nostra casa, che nel frattempo era stata lesionata dai bombardamenti.
A Modena, salvo il periodo trascorso fuori città per la guerra, ho compiuto quasi tutto il mio percorso di studi: ho fatto le elementari presso le Suore di Carità, le medie dai Salesiani e il liceo in una scuola pubblica. Dopo le superiori mi sono anche iscritto all’università ma poi ho abbandonato per seguire l’impegno politico e sindacale.

La mia era una famiglia di condizioni economiche modeste, che faceva fatica a mettere insieme il pranzo con la cena perché eravamo in tanti: mio padre era medico comunale e lo stipendio che portava a casa era relativamente basso. Era il dottore di tutti i disperati, dei diseredati, dei conventi, delle istituzioni benefiche, naturalmente a titolo gratuito. Lavorava anche per l’associazione dei mutilati della Grande guerra, per i ferrovieri e per le mutue. Era un uomo profondamente religioso e praticante. Andava a Messa tutti i giorni alle sette del mattino, poi iniziava a ricevere in ambulatorio, quindi le visite a domicilio e di solito non finiva prima delle dieci di sera sei giorni alla settimana, la notte e la domenica per i casi urgenti e quelli più gravi. Anche la mamma era molto religiosa. La famiglia di mio padre era composta di ben quattordici figli. Era una famiglia di antifascisti, scossa però dagli avvenimenti del 25 luglio e dell’8 settembre 1943 che qualcuno aveva considerato un tradimento nei confronti dell’alleato tedesco, anche perché completamente ignari delle nefandezze e dei crimini compiuti da costoro, ad esempio col genocidio degli ebrei. Io, ragazzino di tredici, quindici anni, ho risentito degli effetti di quegli eventi: facevo fatica a discernere dove stava il bene e dove stava il male.
Nel 1947 ho iniziato ad interessarmi di politica avvicinandomi alla Democrazia cristiana; inoltre partecipavo alla vita di oratorio nella congregazione mariana dei gesuiti la cui chiesa e locali di svago erano a cinquanta metri dalla casa dove abitavamo in via dei Servi. Al partito ci sono arrivato anche grazie alla spinta di due miei compagni di scuola e di oratorio che già lo frequentavano. Il coinvolgimento nell’attività politica fu particolarmente significativo in occasione delle elezioni politiche del 1948, che si annunciavano decisive per il futuro dell’Italia, e per la sua collocazione nello scacchiere mondiale, allora imperniato su due blocchi contrapposti. Io e i miei amici eravamo impegnatissimi ad attaccare manifesti, e a distribuire materiali di propaganda. Modena era una città “rossa” e ci voleva un certo pelo sullo stomaco a fare questi lavori, il rapporto era di settanta a trenta per loro. Quando andavamo di notte a mettere i manifesti nelle periferie, ci accompagnava un sacerdote – ex partigiano – alla guida di un furgone Fiat 1100 nuovo, don Grillini, che sotto il sedile nascondeva sempre un mitra carico. Una notte, mentre eravamo all’opera, attorno a noi si accesero diverse luci, il che ci fece spaventare. Allora don Grillini tirò fuori il mitra e sparò alcune raffiche in aria: le luci si spensero subito e noi potemmo finire il lavoro ed allontanarci indisturbati. In quegli anni ho cominciato anche a frequentare il sindacato: a quel tempo era avvenuta la scissione e aveva preso avvio la Libera Cgil. Ma l’impegno si è fatto più concreto dall’inizio degli anni ’50, quando si costituì la Cisl. Nella Cisl facevo delle piccole conferenze, tenevo delle riunioni. Andavo nelle parrocchie, nei paesi, a spiegare ai lavoratori – che allora erano quasi tutti agricoli, perché di industrie nelle nostre campagne non ce n’erano – cos’era il sindacato, come la pensava la Cisl, quali erano i suoi fondamenti culturali, in cosa si differenziava dalla Cgil, quali erano state le ragioni della scissione. Già a quei tempi si poneva fortemente l’accento sul concetto di autonomia. Il segretario della Cisl di Modena era Ermanno Gorrieri, che avevo conosciuto grazie alla militanza nella Dc. Il passaggio dall’impegno nel partito a quello sindacale è avvenuto in maniera, direi, graduale e naturale. In quel periodo frequentavo ancora l’università, studiavo e insieme lavoricchiavo. Nei primi anni d’attività nel sindacato, tra il ’51 e il ’55, non avevo alcun incarico politico particolare: come ho detto prima, davo una mano, soprattutto a livello di propaganda e formazione. Nella stagione estiva partecipavo anche, come istruttore, ad alcuni campi scuola.

La scuola di Firenze
II momento della svolta, per quanto riguarda il mio impegno, risale a un giorno della primavera del 1955. Mi trovavo nell’ufficio di Gorrieri e sul tavolo vidi che c’era una lettera di Luigi Macario, allora autorevole componente della segreteria confederale, braccio destro del prestigioso segretario generale Giulio Pastore. La lettera spiegava che l’organizzazione avrebbe dato luogo alla selezione dei partecipanti all’annuale corso di formazione per quadri sindacali organizzato dal centro studi di Firenze. Gorrieri mi vede interessato e mi dice: <<Perché non mi scrivi una tua presentazione che la mando?>>. Detto, fatto, mi trovai iscritto alle prove, una scritta e una orale: le superai e fui preso. Il corso durava nove mesi, da ottobre a giugno. Io frequentai con molto impegno l’ultimo diretto da Benedetto de Cesaris. Fu l’ultimo perché poi, a causa di un forte contrasto con Pastore, causato da motivi non sindacali (Pastore, profondamente cattolico e dogmatico, non tollerava che De Cesaris si apprestasse a sposare una divorziata), fu licenziato. Al pranzo che celebrava la fine del corso intervenne Macario, che prendendomi da parte mi comunicò la mia destinazione futura: Sesto San Giovanni. <<Tu vieni da Modena – mi disse – sai come trattare coni comunisti, e lì avrai pane per i tuoi denti! Prima, però, devi andare a Pavia ad aiutare Idolo Marcone>>. Ne ero entusiasta. <<Quando ci devo andare?>> gli chiesi e la risposta fu lapidaria: <<Ieri>>. Così feci: eravamo nel giugno del 1956. Marcone era il segretario generale della Cisl di Pavia e in quei giorni c’era in ballo un grosso sciopero dei braccianti agricoli. Risolta la faccenda, il mese dopo potei andare a Sesto San Giovanni, dove c’era una sede sindacale, in via Fiorani 89, dipendente dall’Unione di Milano, allora guidata dall’on. Ettore Calvi e da Pier Virgilio Ortolani. Sono rimasto lì un paio d’anni, assieme a due collaboratori a tempo pieno, Lino Ogliari e Renato Di Marco, prima l’uno e poi l’altro. Tutti e due bravi e disponibili a sacrificarsi come era necessario fare a quei tempi: stipendio modesto e lavoro intenso per riuscire a fare fronte – non solo in qualità ma anche in quantità – ad una Cgil che disponeva di un numero di quadri a tempo pieno almeno doppio rispetto alla Cisl. Anche i rappresentanti della Cisl nelle fabbriche di Sesto – erano circa 40mila i lavoratori dipendenti dagli stabilimenti grandi e piccoli della città e immediati dintorni – erano bravissimi, direi eccezionali. Di temperamento piuttosto timido e chiuso, inizialmente diffidente, sono stato però sempre pronto ad aprirmi alla fiducia, alla stima, alla collaborazione, sovente all’amicizia con tutti coloro che – naturalmente a mio parere – la meritavano. Così è avvenuto, in questo primo impatto con una realtà sindacale complessa e difficile come quella di Sesto, nei confronti di tutti i rappresentanti della Cisl nelle fabbriche di questo territorio relativamente piccolo ma ad altissima concentrazione industriale e del compianto Pietro Seveso che, segretario generale della Fim milanese, mi ha aiutato e incoraggiato, dato fiducia. Così è stato anche nelle esperienze e incarichi successivi ai quali l’organizzazione mi ha chiamato: a Monza, ad Aosta, alla Fim nazionale, all’ufficio internazionale confederale, al Comitato economico e sociale a Bruxelles, e alla fine alla struttura regionale della Cisl lombarda.

Tornando a questo primo impatto, a Sesto, il rapporto con la Cgil era abbastanza buono: nella primavera del 1957 abbiamo anche fatto un comizio unitario, o meglio contemporaneo, nella stessa piazza, in occasione di uno sciopero dei siderurgici per la riduzione dell’orario di lavoro. Per la Cisl venne a parlare Ettore Calvi. Nell’agosto del 1958 mi sono sposato con una ragazza di Parma, Maria Bertolini, con cui ero fidanzato da tempo e che mi ha seguito a Sesto: qui abitavamo in una casa Inail che ci aveva aiutato a trovare il sindacato. Mia moglie, che era laureata in scienze naturali, sempre grazie alla Cisl, trovò lavoro come insegnante nei corsi organizzati dallo Ial: con due stipendi ce la cavavamo discretamente. Nel settembre del 1958 Ortolani mi chiese di trasferirmi a Monza, a sostituire il segretario generale che era andato in crisi. Monza era una delle pochissime strutture che aveva un’auto a disposizione (le macchine nella Cisl milanese erano cinque in tutto). Lì la Cisl era forte anche perché la zona era politicamente bianca, vicina alla Dc. Ci sono andato, era il settembre del 1958, sono stato cooptato nel direttivo e poi eletto segretario. Nello stesso periodo sono anche entrato a far parte del direttivo della Fim di Milano, con Pietro Seveso segretario generale. Sono rimasto in Brianza per due anni. Insieme a Costantino Salomoni, un carissimo collaboratore, battevamo il territorio tutto il giorno, quasi palmo a palmo. In generale, prima in ufficio, in piazza San Pietro Martire, poi a mezzogiorno, all’interruzione per la mensa, davanti a qualche fabbrica per un contatto o una breve riunione; quindi, verso le cinque del pomeriggio, si usciva di nuovo in macchina e si rientrava alle dieci di sera; per incontrare i cislini che facevano parte delle commissioni interne e gli attivisti sindacali di fabbrica. Ci si trovava a discutere davanti ai cancelli o, spesso, nei circoli delle Acli. Cercavamo anche di introdurre qualche novità nel nostro modo di fare sindacato: i primi picchetti coi cartelli da uomini sandwich al collo, con la scritta “Cisl sciopero”, in occasione degli scioperi dei siderurgici per la riduzione dell’orario di lavoro; i “trombini” per lo “speakeraggio” ed i comizi volanti; poi l’altoparlante – che spesso si rifiutava di funzionare – e la scritta cubitale “Cisl sciopero” sulla Fiat 600 a Monza durante gli scioperi per il contratto nazionale dei tessili; poi, sempre a Monza, e di intesa con la locale Cgil, i referendum per l’adesione al sindacato con trattenuta sulla busta paga: in buona sostanza, eravamo impegnati a darci da fare ed a cercare di inventare…per crescere, rafforzarci e così contare di più. Ne parlavamo, ci consultavamo tra di noi, e poi ci provavamo: e qualche risultato lo abbiamo ottenuto. Nel giugno del 1960 ricevetti una telefonata da Pierre Carniti, di cui ero molto amico. Insieme avevamo gestito una difficile vertenza alla Gilera di Arcore, la famosa fabbrica di motociclette, quando lui era operatore alla Fim di Milano. Soli a Milano, con le mogli in vacanza dalle mamme, trascorrevamo spesso le serate insieme. Camiti mi disse che dovevo andare a Roma perché Macario, allora segretario organizzativo nazionale, aveva urgente bisogno di parlarmi. Vado a Roma e incontro Macario che mi chiede se me la sento di andare a sostituire il segretario generale della Cisl di Aosta. Prima di me aveva interpellato lo stesso Carniti, che aveva risposto negativamente. Io mi sentivo ancora abbastanza inesperto, però, come atteggiamento culturale, mi consideravo al servizio dell’organizzazione: se la Cisl ritiene che possa essere utile in un certo luogo e con un certo incarico – mi dissi – vuol dire che è così, e quindi ho risposto di si. Mi sono insediato ad Aosta a fine giugno del 1960 e sono rimasto lì per circa due anni, fino all’aprile del 1962. L’inizio non è stato semplice, al mio arrivo ho trovato una situazione difficile, legata anche in parte agli eventi che avevano portato alla sostituzione dell’ex segretario (eventi non di natura sindacale) e a tentativi di interferenza di forze esterne; ma, soprattutto mi sono dovuto subito misurare con una vertenza che coinvolgeva la Cogne, la più importante azienda della regione, che dava lavoro a circa 5mila persone nel settore siderurgico-minerario. La Cisl lì aveva più di mille iscritti, non una faccenda da poco. La lotta, durissima, fu condotta unitariamente e riguardava il premio di produzione: oltre a fare scioperi su scioperi, occupammo la fabbrica per un mese. La cosa non piacque molto a Roma, tanto che fui convocato da Bruno Storti, nuovo segretario generale nazionale, il quale mi disse che certi metodi non facevano parte del patrimonio culturale della Cisl. Insomma, non erano molto contenti della piega che stava prendendo la vicenda. Io feci presente che se non andavo bene ad Aosta ero pronto a trasferirmi da un’altra parte, ma che prima volevo chiudere positivamente la vertenza. La risposta fu giudicata pertinente e soddisfacente, tant’è vero che alla fine della riunione Storti sottolineò che la fiducia dell’organizzazione in me non era in discussione e mi esortò a fare quello che ritenevo più opportuno e a cercare di concludere al meglio e al più presto possibile il tutto. E così avvenne. La vertenza si chiuse con un buon accordo che prevedeva l’erogazione di un premio di produzione, di 20mila lire l’anno, circa la metà di uno stipendio mensile.

Il rinnovamento della Fim
Intanto, in quel periodo montava la novelle vague dei meccanici cislini. Giovani che scalpitavano, che chiedevano all’organizzazione di cambiare ritmo, soprattutto verso la Cgil, anche alla ricerca di posizioni unitarie. Io, abbastanza libero dopo la positiva conclusione della vertenza e garantito dalla validissima presenza del mio vice Valerio Beneforti, cominciai a girare l’Alta Italia a raccogliere adesioni favorevoli a questa linea. Con me spingevano Carniti a Milano, Castrezzati a Brescia, Tridente a Torino, Pagani a Savona, Bentivogli a Treviso, Govoni a Bologna, Gavioli a Modena, Barassi a Napoli e molti altri. Al congresso nazionale della Fim, che si tenne a Bergamo nella primavera del 1962, conquistammo una forte maggioranza e su questa base venne stipulato una specie di patto tra gentiluomini: la conferma del segretario generale in carica Franco Volontè, a condizione che la segreteria venisse aperta ai giovani. A condurre la trattativa c’erano Carniti, Castrezzati e Tridente. Viene convocata la riunione del direttivo e si pone il problema di chi deve entrare in segreteria. Spunta il mio nome: io cerco di sottrarmi: ma non c’è niente da fare, le mie obiezioni sono respinte. Vengo scelto e devo accettare. Al momento di prendere la parola nel direttivo, frastornato dalla inattesa designazione, riservandomi di accettare dopo avere sentito il consiglio generale di Aosta, preso dal panico e dalla vecchia, mai del tutto superata timidezza, mi impappino come uno scolaretto. La Fim aveva sede a Milano, prima in via Panfilo Castaldi, poi in via Pancaldo. Si è trasferita a Roma nell’autunno del 1969. Il primo impatto in questo nuovo ruolo fu con il rinnovo del contratto nazionale e, nel pieno della trattativa – sia a Roma per il contratto nazionale che a Torino per l’accordo con la Fiat – con le dimissioni di Volontè e la sua sostituzione con il molto motivato Luigi Macario. Rimasi nella segreteria della Fim fino alla primavera del 1970; sono stati anni intensi, difficili. Anni di lotte anche dure, in particolare per i contratti del 1962 e del 1966: quest’ultimo, un contratto considerato pessimo perché dava pochi soldi. Ma io non sono d’accordo con questa analisi, perché per la prima volta, con quell’intesa, avevamo ottenuto l’introduzione della trattenuta sindacale per delega anche nelle aziende private. Un diritto che consentì un forte balzo in avanti delle adesioni. Nella primavera del 1962, ad inizio trattativa per il rinnovo del contratto, le aziende a partecipazione statale facevano ancora parte della Confindustria e al tavolo della trattativa era sembrato di cogliere qualche loro posizione di maggiore apertura verso le richieste sindacali: si decise di cercare di favorirne l’uscita dalla Confindustria e così, subito dopo, in occasione di un comizio davanti agli stabilimenti Dalmine di Bergamo per sostenere le candidature Cisl nelle imminenti elezioni per il rinnovo della commissione interna, ebbi modo di lanciare chiaramente questa sfida: se davvero le aziende a partecipazione statale avevano maggiori aperture rispetto alle richieste sindacali potevano dimostrarlo assumendosi direttamente le loro responsabilità uscendo dalla Confindustria ed avviando una trattativa autonoma. Così avvenne: la trattativa si sviluppò rapidamente e positivamente; il contratto venne concluso all’inizio dell’autunno… mentre le elezioni di commissione interna alla Dalmine ebbero un risultato molto favorevole per le liste della Fim Cisl. Per carità, non certo per merito mio, ma l’uno e l’altro dell’azione energica impostata da Fim, Fiom e Uilm che avevano presentato per la prima volta richieste unitarie ed in particolare della rinnovata Fim, sia a livello nazionale che – in una certa misura – anche bergamasca. Così come, nell’autunno del 1966, con l’acqua alla gola per l’impossibilità di proseguire gli scioperi, per l’economia in recessione e il rinnovo del contratto bloccato dalla rigidità padronale, lanciai in segreteria l’idea di fare una grande manifestazione a Roma: detto fatto: oltre 100mila metalmeccanici per la prima volta a sfilare da piazza Esedra a piazza del Popolo, per i comizi di Macario, Trentin e Benvenuto. Ed il contratto si concluse: sì, quello tanto vituperato ma che invece, pur nella sua reale povertà fu decisivo per lo sviluppo futuro del sindacato con la trattenuta dei contributi su delega. Non ho condiviso tutte le scelte fatte in quegli anni, accaddero anche cose che non mi piacquero, ma la mia lealtà verso l’organizzazione e la “cordata” alla quale appartenevo è sempre stata ferrea. Di quel periodo, ricordo anche le battaglie interne alla Cisl per far passare la linea che aveva vinto tra i meccanici, ma che poi fu sconfitta nel congresso confederale del 1966. In quanto alla Cgil, i rapporti con la Fiom furono abbastanza buoni. Anche quelli personali, pur nel frequente dissenso politico, sempre spontaneamente tesi a ricercare punti di incontro piuttosto che di scontro, sia coi naturali interlocutori allo stesso livello delle funzioni ricoperte nei 50 anni di vita attiva nella Cisl, sia con altri, di livelli diversi e in generale di maggiore responsabilità come Lama, Trentin, Pizzinato.

L’esperienza internazionale
Nel 1970 passai all’Ufficio internazionale confederale, anche se in realtà avevo già cominciato ad interessarmi di questioni internazionali quando ero ancora alla Fim. Sono rimasto lì per dieci anni, fino al 1980. In particolare mi sono occupato degli immigrati italiani all’estero. Per andarli a trovare ho girato il mondo – Europa, Africa, America, appoggiandomi soprattutto alle strutture dell’Inas, sin da allora molto efficienti, e ai sindacati metalmeccanici aderenti alla Fiom internazionale nei vari paesi, i cui responsabili conoscevo dalle mie partecipazioni ai comitati centrali dell’organizzazione. Tanti gli episodi di questo periodo: ne cito soltanto due. Nel rapporto fatto al mio ritorno dalla prima visita in America latina – eravamo nel 1972 – descrivendo la situazione argentina – che sarebbe ben presto diventata tragica, con frequenti omicidi, e fra questi quello del carissimo amico Dirc Klosterman, segretario generale dello Smata, il sindacato dell’automobile, e poco dopo, quello di Ruci, il segretario generale della Cgt, la confederazione unitaria dei lavoratori – concludevo affermando che il giustizialismo-peronismo era il massimo di democrazia realizzabile all’epoca in quel paese. Fui subissato di critiche perché – miopi – eravamo abituati a misurare la situazione latino-americana col metro europeo … ma, ad oltre trent’anni di distanza, rimango dello stesso parere.

Inoltre, sempre in quel periodo, ho tenuto i rapporti con i sindacati dell’est europeo: tra questi, particolarmente significativi quelli con lo Szot ungherese!

In quel periodo si respirava aria di unità sindacale quasi imminente. La federazione unitaria – che a Roma aveva sede in via Sicilia – a mio parere funzionava abbastanza bene: si è avuta troppa fretta nel procedere allo scioglimento delle singole organizzazioni, sia a livello categoriale che delle province, mentre alcuni dissensi su questioni fondamentali – autonomia, sindacato associazione-sindacato movimento, ad esempio – erano ben lontani dall’essere superati. La federazione non resse all’insuccesso e venne sciolta! Male, molto male: anche in questo caso, era, secondo me, il massimo di unità possibile in quel momento … come dicevo a proposito di democrazia in Argentina. E così, a forza di passi indietro, si è arrivati alla situazione attuale, per molti aspetti peggiore di quella degli anni ’50! Ma, tornando a noi, anche le relazioni sindacali internazionali avevano cavalcato questo clima unitario e tra l’altro erano stati unificati i rapporti bilaterali che, fino a quell’epoca e in generale, ciascuna organizzazione teneva per proprio conto. C’erano rapporti bilaterali che si concretizzavano anche con la partecipazione alle celebrazioni della festa del Primo Maggio, con delegazioni unitarie invitate dai sindacati dei Paesi del l’Est. Durò alcuni anni. Ricordo che in tre, quattro anni andai in Ungheria, Romania, Germania orientale. Si trattava di manifestazioni imponenti, con sfilate delle nutrite rappresentanze delle fabbriche un po’ di tutto il Paese, che duravano ore ed ore: un volta, mi è capitato, sotto una pioggerellina novembrina … a battere i denti … un freddo cane! A conclusione però, pranzi luculliani e poi, alcuni giorni di visita del Paese. Per tutta la società civile, compreso il quadro sindacale, era la festa più importante dell’anno, che si celebrava anche con simposi che duravano fino al tramonto. Anche nei giorni successivi e in generale, l’ospitalità alle delegazioni straniere era oserei dire principesca. Solo in una occasione rimasi un poco deluso e ritornai a Roma con la fame: anche se, nel corso della visita avevamo effettuato una gita in una località turistica veramente amena, dove era stata annunciata con enfasi una cena con squisite … forelle! Si, erano squisite davvero … ma una a testa, di dimensioni normali, un bicchiere di birra da 33 cl. e … pedalare !!!

Sono stati anni molto belli e interessanti, durante i quali ho avuto l’opportunità di fare tante esperienze e conoscenze. All’estero, tra gli emigrati, ho incontrato qualche difficoltà a spiegare l’autonomia del sindacato. In particolare far capire che nella Cisl c’erano persone che politicamente si riconoscevano nella Dc, ma anche tante altre che avevano opinioni diverse e che il sindacato era una cosa, mentre i partiti tutt’altra. Sul finire del 1979 sono stato nominato consigliere nel Comitato economico e sociale (Ces) della Cee, designato dalla Cisl e contemporaneamente ho lasciato l’incarico a tempo pieno nell’Ufficio internazionale confederale per passare a una collaborazione con la Cisl regionale della Lombardia, naturalmente per il tempo residuo dai miei pressoché settimanali viaggi a Bruxelles. Là ho seguito i settori dell’agricoltura, dei trasporti e delle relazioni esterne, mentre per un lungo periodo ho anche ricoperto l’incarico di componente l’ufficio di presidenza e di vice presidente del gruppo lavoratori. Un’esperienza diversa dalle precedenti, ma anche questa molto interessante e appagante. Alla fine del 1990, compiuti i 60 anni, ho lasciato l’incarico a Bruxelles mentre continuava la collaborazione col regionale della Lombardia. Qui, sin dall’inizio, ottimi i rapporti con i segretari generali che si sono via via susseguiti, Melino Pillitteri, Sandro Antoniazzi, Luigia Alberti, Savino Pezzotta e con i segretari responsabili dell’attività internazionale Emilio Zeni, Antonio Gilardi, Mario Stoppini, nonché con tutti i colleghi che nei vari settori coadiuvavano la segreteria. Molte le iniziative intraprese, utilizzando soprattutto le conoscenze derivanti dagli incarichi precedentemente ricoperti, sempre nell’ambito delle relazioni sindacali internazionali, dimensione che consideravo sottovalutata e sottodimensionata sia nella struttura regionale che nelle unioni sindacali territoriali. In particolare, ritenevo importante coinvolgere i responsabili di questi livelli nella conoscenza e nella sperimentazione diretta in questa dimensione, sempre più significativa per non dire determinante per l’azione del sindacato. E così, passo passo, è stato dato un certo impulso al settore, continuando a impegnarci nella compagine dei sindacati delle regioni delle Alpi Centrali (Arge-Alp); siamo poi stati promotori e attivi nell’avvio della struttura sindacale delle regioni “Quattro Motori per l’Europa” tutt’ora positivamente funzionate, ma soprattutto ci siamo impegnati per coinvolgere le altre strutture territoriali e categoriali della regione. Così i numerosi e complessivamente proficui seminari sia unitari – in particolare con lo Szot ungherese, rispetto al quale godevamo di una specie di delega confederale e con il Congresso dei sindacati di Leningrado – sia come Cisl, con seminari e visite formativo-turistiche ai sindacati del Rhone-Alpes in Francia, della Csc del Limburgo in Belgio, della Stv dei Paesi Baschi, della Dgb della Baviera, della Ugt della Catalogna, nonché alla Unione europea a Bruxelles, con la partecipazione di numerosi responsabili delle Unioni territoriali e delle categorie. Particolarmente significativo e impegnativo – specie nella fase iniziale – il rapporto con Solidarnosc della regione di Wroclav (Bassa Slesia) sin da poche settimane dopo la costituzione del sindacato libero in Polonia. In un primo tempo unitario, poi ridotto alla sola Cisl, per il ridursi dell’interesse da parte di Cgil e Uil: iniziato con l’invio di aiuti alimentari ed economici in genere, era poi proseguito con seminari sia in Polonia che in Italia e con incontri per scambi di opinioni e di esperienze a livello delle segreterie e dei rispettivi congressi. Una esperienza direi unica, ricca di insegnamenti e di significati solidaristici che ha coinvolto quasi tutte le strutture periferiche e categoriali della organizzazione regionale, anche con consistenti impegni di natura finanziaria. Impegnativo il lavoro nel Csi (Comitato sindacale interregionale) italo-svizzero nel quale sono presenti le tre organizzazioni confederali italiane e le due Svizzere del Canton Ticino. Si occupa della tutela dei lavoratori frontalieri, sia nei confronti delle autorità svizzere che di quelle regionali e governative italiane, con numerose ed efficaci iniziative che fanno prevalentemente capo alle organizzazioni sindacali delle zone di frontiera: per l’Italia, Como, Varese e Verbania. In tutta questa attività nella Cisl lombarda e fino all’ultimo periodo, la collaborazione con la Uil e soprattutto con la Cgil regionali è stata molto buona, franca, costruttiva e leale. E’ stato per me un periodo veramente bello perché ho sempre trovato ovunque e con tutti all’interno della organizzazione, un clima di collaborazione, di unità di intenti, di disponibilità veramente eccezionali. Nella vita, tutto però ha un inizio … ma anche un termine … ed io non sono sfuggito a questo prima o poi inevitabile appuntamento: alla fine del 1999, mi è sembrato di cogliere un certo progressivo affievolirsi dell’interesse per le varie iniziative e i rapporti con le analoghe strutture sindacali, messi in atto e proseguiti più o meno sistematicamente nei venti anni della mia collaborazione con la Cisl lombarda o in avvio, come quelli col sindacato della Repubblica Ceca. D’altra parte ero alle soglie dei 70 anni. L’uno e l’altro mi sono sembrati motivi sufficienti per considerare come definitivamente conclusa la mia vita di lavoro nella Cisl. Non certo però la militanza, l’interesse, la passione, la condivisione alimentate anche dalla quotidiana lettura del giornale confederale. Così, grazie all’amicizia della quale mi onorano il segretario generale Savino Pezzotta e il responsabile dell’ufficio internazionale confederale, Luigi Cal, sono stato invitato e ho partecipato all’ultimo congresso, il 15°, del luglio 2005, cercando di dare una mano nell’assistenza e gestione del centinaio di ospiti, rappresentanti i sindacati di altri Paesi.

Quando ho lasciato ho scritto due lettere – purtroppo rimaste senza una sia pure laconica e burocratica risposta – con le quali ho preso commiato dall’organizzazione e in cui affermo: “Alla Cisl devo tutto; la Cisl mi ha dato tutto. Anch’io ho cercato di dare tutto alla Cisl, non di rado anche sacrificando parte dei miei affetti più cari – moglie e figlia – tranquillizzato dalla supplenza della mia amatissima ed impareggiabile sposa, Maria”.