I protagonisti: Maria Belotti

Milano, 15.05.2006

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006.

Una famiglia di contadini, di mezzadri. Mio padre, mio nonno, e per quanto possa ricordare altri ascendenti, hanno coltivato e lavorato sulla terra, e mai la loro. Forse anche per questo nella mia famiglia l’alimentazione di base, fisica e spirituale, è sempre stata pane e sindacato, pane e Resistenza, pane e valori di un cattolicesimo sociale molto forte.

Sono nata a Grumello del Monte, il 21 aprile del 1928, prima femmina di 6 figli. Oggi, quasi vezzosamente, posso affermare di essere “nata in collina”, in una delle zone più rinomate dell’intera provincia di Bergamo, ma 80 anni fa la vita non era certo semplice, per nessuno, e nemmeno per i bambini. Il lavoro ha sempre fatto parte della mia giornata, nonostante frequentassi anche la scuola e, certo anche per questo, ho abbandonato la mia carriera di studentessa alla 5° elementare.

La collina della Val Calepio, allora, non permetteva comunque di mantenere una famiglia numerosa come era la nostra, e così, nel ’36 ci trasferimmo a Bergamo, dove mio padre riuscì a garantire un’esistenza decorosa all’intera famiglia. Sul carretto trainato da un cavallo montammo tutti quanti, comprese le galline e i pochi mobili da portare in città.

“Finite” le scuole, cominciai a lavorare fuori casa, prima in una latteria, poi in una stireria, finché, nel ’42, a soli 14 anni, vissi momenti particolari che mi cambiarono la vita: persi due fratelli, di soli 8 e 10 anni, per tifo, malattia all’epoca purtroppo comune, e fui assunta alla Pirelli di Redona, dove iniziò la mia attività politica e sindacale.

Erano, naturalmente gli anni della grande resistenza al regime fascista, alla repubblica di Salò e all’occupazione nazista. Erano anche gli anni in cui nacquero le Acli (43 – 44) e in molte fabbriche vennero costituiti i gruppi dei Raggi, iniziative promosse dai lavoratori cristiani a favore dei quadri di fabbrica per costituire e formare i primi nuclei di dirigenti sindacali, dopo la grande repressione del ventennio.

Finita la guerra, nel 1945, in molte fabbriche si costituirono le commissioni interne: in quel preciso momento storico l’esperienza unitaria, che coinvolse le culture socialiste e cristiane nella ricostruzione del movimento sindacale, fu forte, incredibilmente appassionante: dopo la guerra, la fame, la resistenza scopri che il mondo può cambiare, e capisci che anche tu puoi fare qualcosa per farlo cambiare.

Io l’ ho vissuta così: ma d’altronde, come ho già detto, la famiglia mi aveva abituato a vivere senza paraocchi. Mio padre è stato antifascista da sempre… è stato uno degli uomini di don Carminati, e anche negli anni giovanili ho continuato a mangiare pane e sindacato, pane e Resistenza…

Tramite le Acli siamo entrati in contatto con il linguaggio sindacale. Era forte a quei tempi il rapporto aclista con Milano: qui gruppi di futuri sindacalisti, politici, giovani pronti a spendersi nel sociale si confrontavano e studiavano. Mi ricordo con piacere le estati a Assisi, dove monsignor Giovanni Rossi, della Pro Civitate Cristiana, promuoveva numerosi incontri culturali.

Troppo giovane
Dopo la Liberazione, con le prime votazioni interne alla fabbrica, apparve da subito chiara la mia capacità di catalizzare consensi tra i colleghi di lavoro. Sul lavoro, infatti, ero quella che prendeva più voti, sollevando naturalmente il malcontento di alcune persone, soprattutto della corrente comunista, che non gradivano una cristiana “politicamente forte” all’interno della fabbrica. Fu persino presa di mira la mia età: io avrei compiuto i 18 anni nel 46, poco tempo dopo, in pratica, delle votazioni che mi elessero a pieni voti. Il Pci di Redona protestò vibratamente, denunciando che una minorenne non poteva essere eletta. Fu Bonomelli, un socialista, che con le sue parole: <<prima o poi i 18 anni li compirà>> calmò la situazione e in pratica convalidò la mia elezione. C’era un grande scontro culturale a quei tempi, le tre grandi culture popolari, che, insieme alla liberale, stavano ricostruendo il paese, si misuravano in continuazione, ma riuscivano comunque a produrre nelle fabbriche, almeno nella mia, una esperienza unitaria meravigliosa: i problemi che sorgevano venivano portati avanti insieme, davanti al “padrone” restavamo uniti.

Anche per questo io ho vissuto con grande sofferenza la fine dell’esperienza unitaria.

Nella componente cristiana c’era un gruppo forte, che faceva capo all’onorevole Marelli, che non era d’accordo: d’altronde a Bergamo già allora la parte cristiana del sindacato era quella più numerosa, e all’interno della dirigenza era forte la consapevolezza di “avere in mano il sindacato”. Ma la storia ognuno la conosce, o almeno i suoi risultati eclatanti: ci hanno imposto lo strappo.

Sono anni di “guerre” intestine che vedono far fuori uno dopo l’altro alcuni dei fondatori della Cisl: Marazzina viene eletto al Senato; Ferrario viene cacciato da Bergamo; al suo posto arriva Piero Guizzetti, che era l’uomo dei Comitati civici, e dopo poco tempo fanno fuori anche lui: c’era una dirigenza in mano al potere economico e religioso che faceva il bello e cattivo tempo, arrivando anche a utilizzare mezzi miseri per contrastare gli “oppositori”.

Dopo Guizzetti giunse a Bergamo Aurelio Colleoni, in tandem con Nullo Biagi: in quegli anni esplode la volontà politica della dirigenza di tenere in mano le redini dell’organizzazione. Non esisteva autonomia delle categorie, e noi, naturalmente abbiamo iniziato a batterci per l’autonomia della categoria.

Sindacalista dei tessili
Negli anni 50, divento membro della segreteria dei tessili, poi membro dell’esecutivo dell’Unione provinciale. Io fui nella prima categoria che ottenne l’autonomia economica e poi quella politica: fu una battaglia grossa, aspra, vera. A Bergamo furono i tessili i primi a fare la contrattazione differenziata, o aziendale: Honegger, Crespi, Legler, Bellora, Erba di Treviglio.

Questo fu motivo di contrasto nella Cisl: Rino Saurotti della Fim si dimise in contrasto con la linea confederale. Sul finire del 54, mentre stavo seguendo un corso a Firenze, Giulio Pastore mi chiamò e mi propose di continuare a lavorare a Borgo Sesia, sempre nel tessile. “Qui potrai crescere in tranquillità”, mi disse, ma per me non durò troppo a lungo: la “nostalgia” di Bergamo, della mia casa, della mia famiglia….mi sono lasciata prendere e mi feci rimandare indietro. Entrai così a far parte della segreteria dell’Unione nel ‘56 e ci rimasi fin al 1963, quando lasciai il sindacato.

Sembrava comunque che la mia carriera dovesse procedere senza intoppi, ma purtroppo nella mia storia si incrocia anche la cronaca nera e la storia locale recente. Nel 1963 aprimmo una lunga e tortuosa vertenza con la Sebina, un’azienda tessile del lago di Iseo. A un certo punto della trattativa, la proprietà decise la serrata. A noi non restavano altre possibilità: decidemmo di occupare la fabbrica. Gran parte dei lavoratori ci seguirono e l’occupazione ebbe luogo. In tutta sincerità non seppi mai bene il perché, ma a un certo punto i Carabinieri “impazziscono” e sparano: vi fu un morto. Le ripercussioni all’interno dell’organizzazione non si fecero attendere: la dirigenza locale fece di tutto per estromettermi dalla categoria e durante il congresso, pur non impedendomi di candidarmi e di essere eletta, riuscirono a “eliminare” tutti i miei amici e colleghi più vicini. Con grande dolore presi la decisione di dimettermi.

Allora pensai per sempre, e ripresi il mio posto in fabbrica, da operaia, al Linificio di Villa d’Almè. Ma il mio essere cresciuta a “pane e sindacato” evidentemente traspariva dal mio modo d’essere: ogni giorno, ogni ora e per qualsiasi occasione, i miei colleghi “saltavano” il delegato di fabbrica e venivano da me per sapere come comportarsi nei confronti del “padrone” per quanto riguardava i loro diritti. Io da parte mia non mi sono mai negata: l’esperienza maturata sul campo della contrattazione, la conoscenza diretta di tutte le pieghe di qualsiasi contratto, soprattutto nel campo del tessile, mi obbligavano moralmente a essere d’aiuto ai miei colleghi, che ottenevano da me in cinque minuti quello che non riuscivano ad avere altrimenti. Ma credo, purtroppo, che anche questo non riuscisse ad essere digerito dall’establishment, sindacale e padronale. Dopo essere passata tra i lavori più brutti e pesanti, nel 64 fui licenziata, ma capii, se mai ve ne fosse stato bisogno che per la “Maria Belotti” di quegli anni, e anche di oggi, non poteva esistere lavoro al di fuori del “sociale”, del sindacato. Fu Vittorio Meraviglia, l’allora segretario nazionale del sindacato tessili, che mi offrì la possibilità di rientrare in Cisl, proponendomi di lavorare a Milano, dove rimasi fino al 1973, quando andai in pensione.

Fu in quella fase che nacque la Filta (Federazione lavoratori del tesile e dell’abbigliamento), della quale rimasi fino all’ultimo giorno di lavoro, responsabile per la città di Milano. Dei miei trascorsi nella Cisl serbo un ricordo esaltante: quando facevamo contrattazione sentivamo il riscatto, il recupero dei molti anni persi durante il fascismo e la guerra. Era soprattutto un’esplosione vera del ruolo femminile: chi lavorava, lottava e organizzava erano le donne, poi comandavano gli uomini….

Dal punto di vista sindacale, inoltre, ho avuto la fortuna di trovarmi a lavorare in un settore determinante, economicamente e politicamente. Noi eravamo la spina dorsale dell’economia: c’erano più di 50mila tessili che lavoravano a Bergamo, che hanno creato un’incredibile ricchezza e movimento di sviluppo in provincia. Al contrario, esisteva una classe imprenditoriale che da quegli anni ha smesso di investire. Solo Legler ha lavorato per il territorio. Adesso tutti, ma soprattutto i lavoratori, ne pagano il conto.

Il mio percorso sindacale è stato segnato da molti scontri e numerose incomprensioni: anche oggi, con molta parte della base di allora è rimasta la stima, con la dirigenza, in molti casi anche quella attuale, no.

Oggi penso che quel mondo sia completamente sparito, e con esso un certo tipo di rapporto umano, di entusiasmo. Tutto ciò, forse, è accaduto anche perché la mia generazione ha sbagliato. È stata capace di gestire al meglio il momento del grande passaggio del dopoguerra, di una ricostruzione che doveva essere anche culturale, morale e che è riuscita solo in parte. Poi basta…

Contrattazione
Più che a ottenere aumenti, la contrattazione nel settore del tessile era tesa a conquistare sempre migliori condizioni di vita: la salute, innanzitutto, e anche il riconoscimento di uguale categoria per uomini e donne. Non capitava di rado, infatti, che a parità di mansioni una donna e un uomo avessero due livelli di inquadramento, e quindi di stipendio, molto diversi, e naturalmente mai che accadesse a favore di una donna. Molta attenzione, poi, si prestava alla qualità dei servizi e dei rapporti interni ai luoghi di lavoro.

Un buon lavoro lo facemmo alla Legler nel ‘59 – ‘60: ribaltando il contratto si stabiliva il valore di ogni tipo di lavoro, quella che gli economisti di oggi chiamano “Job evaluation”. Fu un lavoro stupendo, che assorbì energie e risorse per diverso tempo, ma alla fine ne scaturì un’analisi del lavoro e della persona che ancora oggi è difficile riscontrare in analoghi ambiti.

Va ricordato, ad onor del vero, che non fummo capiti, in primo luogo dai lavoratori: infatti poco tempo dopo perdemmo le elezioni per il rinnovo degli incarichi sindacali, ma ancora oggi non intendo rinnegare quell’accordo. Sono invece sempre più convinta che per le donne fosse stata una grande “esaltazione”, e intendo politica, sindacale e sociale, evidentemente molto pericolosa per i “padroni del vapore” del tempo. Per questo bisognava fermarla.

I rapporti unitari
Per natura sono unitaria, ma non sempre i tentativi di coinvolgimento erano buoni, si cercava di sopraffare.

I tessili erano la categoria più unitaria, ma la gestione di questo gruppo comunque così eterogeneo era particolarmente difficile. Nonostante ciò, nonostante la mia esperienza sia stata vissuta per lunga parte nella provincia bergamasca, dove la Cisl e le sue categorie erano quasi ovunque maggioranza, credo di aver portato nella mia vita cislina forti spinte al lavoro unitario, ottenendo anche risultati di una certa qualità e spessore.

Rimane forte in me la convinzione che spinte esterne al movimento dei lavoratori abbiamo lavorato per la divisione del sindacato. Per questo le affermazioni secondo le quali il sindacato non debba e non faccia politica mi fanno letteralmente imbestialire. Non credo proprio che, oggi come oggi, all’interno della Cisl si possa ancora affermarlo tranquillamente. L’idea di restituire la tessera mi è balenata tante volte in mente… ma non sono mai riuscita a farlo.

La mia formazione non mi consente, neanche oggi, di dimenticare quanto l’esperienza unitaria fosse stata, umanamente e culturalmente, coinvolgente. Rifuggo sempre dalle voglie di celebrare comunque sia ricorrenze che consegnano momenti storici lontani da quell’esperienza.

Anche se invitata, ad esempio, non ho partecipato alla posa della targa che la Cisl di Bergamo ha posto all’ingresso della sua sede per ricordare i fondatori della Lcgil. In questo caso ritengo sia stata scelta la data peggiore delle vicende sindacali dopo il ventennio fascista. E cioè la data della grande rottura del patto di Roma, costruito faticosamente durante la resistenza.

Ritengo che se i vertici sindacali avessero scelto la nascita della Cisl (1950), l’iniziativa avrebbe assunto un significato più vicino allo spirito del sindacalismo democratico. La Cisl era infatti già il risultato di aggregazioni con socialisti, repubblicani, e altri gruppi sindacali autonomi presenti nel paese e in provincia di Bergamo. Pertanto avrebbe rispecchiato l’idea fondamentale uscita dal grande dibattito del mondo cattolico di allora, in ordine alla natura aconfessionale e pluralistica del sindacalismo democratico.

Ricordiamo inoltre come la rottura dell’unità sindacale del 1948 avvenne proprio all’indomani della vittoria politica della Democrazia cristiana nelle elezioni politiche del 18 aprile; dopo quella vittoria restava in Italia il nodo dell’unità sindacale; ed era per buona parte strumentale il discorso della cinghia di trasmissione tra Cgil e Pci. Restava invece quella grande forza della classe lavoratrice italiana unita in una sola organizzazione che bisognava in qualche modo spezzare.

Ricordo ancora con emozione la posizione dell’on. Luigi Morelli e di altri che consideravano il patto di Roma come <<una conquista fondamentale da migliorare ma da mai spezzare>>.

È certamente vero che la maggioranza dei dirigenti nazionali della corrente sindacale cristiana nella Cgil decisero allora di uscire da quella esperienza; ma io a Bergamo ero decisamente contraria; volevo continuare quella che per molti di noi, nelle fabbriche e nella società, era un’esperienza esaltante, dopo il periodo fascista e la guerra.