I protagonisti: Luigia Alberti

Milano, 11.5.2006

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006.

Sono nata a Pioltello, il 22 marzo 1938. Provengo da una famiglia di contadini composta da mamma, papà e cinque figli, due maschi e tre femmine. Io sono l’ultimogenita. A Pioltello ho fatto le scuole elementari e quella che una volta si chiamava la “sesta”. Intanto che studiavo, davo una mano ai miei nei campi. Il primo lavoro regolare l’ho avuto a 14 anni quando, grazie all’interessamento del ragioniere del paese, ho trovato un posto alla Lanar, una fabbrica tessile che stava aprendo proprio in quel periodo a Cernusco sul Naviglio. Sono stata assunta il 22 marzo 1952 come operaia. I primi giorni li ho passati a pulire vetri e pavimenti.

Il sindacato l’ho incontrato mentre lavoravo alla Lanar, anche se non subito e per vie traverse. Mi spiego: io partecipavo attivamente alla vita dell’oratorio e facevo parte dell’Azione cattolica e delle Acli. Un giorno sono andata ad un incontro delle Acli, condotto da Lorenzo Rota sull’impegno sociale e politico dei cattolici. Ricordo che Rota, tra le altre cose, disse che bisognava darsi da fare nel sindacato. Finita la discussione cominciai ad interrogarmi su cos’era il sindacato e perché in parrocchia e nell’Azione cattolica non se ne parlava. Mi informai e scoprì che a Gorgonzola c’era una sede distaccata della Cisl. Ci andai e lì incontrai prima Albino Estorelli, e successivamente Luigi Massara, due operatori di zona molto bravi. Di fatto, furono le persone che mi introdussero nel sindacato. A quei tempi la situazione per i lavoratori era molto difficile. Alla Lanar facevamo i turni, in certi periodi anche la notte. All’inizio io ero in carica presso il reparto tintoria, poi a causa di un’infezione contratta in fabbrica che mi ha fatto finire in ospedale a Melzo per intossicazione, sono stata trasferita nel magazzino filatura. Come ho detto, le condizioni di lavoro erano difficili, così nella seconda metà degli anni ’50, abbiamo deciso di organizzarci e di iscriverci al sindacato. Volevamo far valere i nostri diritti. Eravamo in una cinquantina di donne. A portarci le tessere fu Estorelli, dopo una mia telefonata. Allora si pagava mille lire e rotti di quota e c’era il sistema dei bollini. Un altro incontro importante fu quello con Mario Colombo, allora segretario generale dei tessili-abbigliamento della Cisl di Milano, che un giorno venne in visita da noi, insieme ad Antonio Persano, un altro segretario di categoria. Ricordo che ci parlò della possibilità di costituire la commissione interna. In quei tempi cominciai anche a frequentare la sede centrale di via Tadino, dove la domenica il professor Sergio Zaninelli, che poi sarebbe diventato rettore dell’università Cattolica, teneva dei corsi di formazione per attivisti sindacali. Le lezioni riguardavano la storia della Cisl, i concetti di autonomia, padronato, democrazia, Stato, le differenze tra noi e la Cgil… e altri argomenti ancora. Si trattava di appuntamenti molto interessanti, a cui partecipavo con entusiasmo. Tutto ciò mi diede la spinta per impegnarmi sempre più in azienda, dove, grazie anche alle sollecitazioni di Estorelli, Massara e quelli di Milano, mi diedi da fare per costituire la commissione interna. Credo fosse il 1958. Il padrone fece molta resistenza, non ne voleva sapere di avere il sindacato tra i piedi. Oltretutto la vicenda di intrecciava con le lotte in corso per il rinnovo del contratto nazionale, un contratto che poi si chiuse con un aumento del salario del cinque per cento: non poco in un periodo come quello, che vide la prima forte crisi del settore. In quell’anno si fecero almeno duecento ore di sciopero. Ad ogni modo la commissione interna fu messa in piedi. Oltre a me, ne facevano parte altre due compagne, una delle quali si sarebbe fatta suora, fino a diventare superiora delle Canossiane. Il padrone, però, non me la fece passare liscia. Nel 1960 fui operata di calcolosi renale e al mio rientro, nonostante l’operazione e i sessanta punti di sutura che mi trovai addosso, fui punita. La mia ostinazione nella vicenda della commissione mi costò, infatti, il trasferimento dal magazzino alle macchine, più precisamente alla macchina abbinatrice: un compito pesante, sempre su e giù con la ferita che mi faceva male. Insomma, mi castigarono per bene, tanto che mi arrabbiai molto. Si lavorava sempre, ma io non mi lasciavo intimidire e le mie compagne, un po’ anche perché erano dispiaciute per quello che mi era successo, mi seguivano: un giorno abbiamo scioperato per poter seguire la processione del Corpus Domini, alla quale non avremmo potuto partecipare perché la fabbrica era sempre aperta. Il lavoro sull’abbinatrice mi creò non pochi problemi di salute, tanto che feci un lungo periodo di malattia a casa. Al mio rientro, per fortuna mi misero su una macchina meno pesante: il lavoro era faticoso, ma sopportabile. Ad ogni modo, nonostante tutto quello che ho passato, ho un bel ricordo di quel periodo, delle mie prime esperienze nel sindacato e del clima che si era creato in azienda tra noi dipendenti.

Da attivista a sindacalista
Sono rimasta alla Lanar per una decina d’anni, fino al dicembre del 1962, quando mi sono licenziata per dedicarmi a tempo pieno all’attività sindacale. Successe che durante una delle domeniche in cui ci si incontrava in via Tadino, la segreteria dell’Unione milanese, che allora era guidata da Roberto Romei, mi propose di partecipare ad un corso lungo al centro studi di Firenze. La cosa mi interessava, ne parlai in famiglia (tra l’altro era appena scomparso mio padre) e, tutti d’accordo, decisi di accettare. Come detto dovetti licenziarmi, perché allora non esistevano i distacchi sindacali, ma ero felice, perché l’impegno nella Cisl mi era ormai entrato nel cuore. In attesa di cominciare al centro studi, ho lavorato per tre mesi nella sede di Gorgonzola, facendo quello che faceva l’operatore di zona: cioè un po’ di tutto. Nel marzo del 1963 sono partita per Firenze. Il corso era duro, severo. Richiedeva parecchio impegno, non era una cosa da prendere alla leggera. Al termine bisognava anche superare un esame; la commissione giudicatrice era presieduta da Mario Romani. Sono rimasta lì fino a luglio, con la possibilità di tornare a casa una volta al mese. L’ambiente fiorentino era molto eterogeneo. Tra gli iscritti c’era da chi aveva fatto appena la quinta elementare, al diplomato, al laureato. In tutto eravamo in una trentina. Il corso era finalizzato a preparare i futuri operatori e dirigenti sindacali. Già allora si parlava di autonomia. Insieme a quello del cosiddetto risparmio contrattuale era il concetto su cui battevano maggiormente i docenti. Io ricordo in particolare la responsabile dell’Ufficio femminile della Cisl, Sandra Codazzi, che ci seguiva con grande attenzione. E’ stata una bellissima esperienza, che mi ha aiutato a conoscere più da vicino il sindacato e mi ha dato una grande carica. Finito il corso mi hanno rimandata a Gorgonzola, “a fare l’orizzontale”. Non fui presa come “verticale”, cioè in una categoria, perché l’allora segretario dei tessili, Maresco Ballini, non mi volle perché aveva già altre due donne, Giovanna Bramante e Matelda Fedi. Ero operatrice di zona, facevo le vertenze. Per me le vertenze sono il catechismo del sindacato, tutti i sindacalisti dovrebbero farle perché si impara moltissimo. Qui come operatore c’era anche Gianni Pini. Successivamente arrivarono Luigi Nerini e Nunzio Filisetti. Allora l’organizzazione era divisa in mandamenti: io facevo parte di quello di Monza, che dipendeva da Milano. A quei tempi, però, la ripartizione tra orizzontali e verticali non era rigida come oggi: se c’era da scioperare, da volantinare in giro o da fare picchetti davanti ai cancelli delle fabbriche lo si faceva. Sul territorio c’erano tante grandi aziende, di diversi settori: tessile-abbigliamento, chimico, meccanico, alimentare. In quel periodo seguivo anche Loano. La Cisl di Gorgonzola era proprietaria di uno stabile in Liguria, allora era utilizzato come scuola, una scuola convenzionata con la Provincia di Milano per minori con problemi. D’estate veniva, invece, impiegata come casa-vacanze per sindacalisti. E poi facevo formazione agli attivisti e ai lavoratori. Ci trovavamo nelle parrocchie e per tre ore di seguito si parlava della Cisl, di autonomia, di contrattazione, del ruolo del sindacato e via dicendo. Ma torniamo alle aziende. Nella mia zona ce n’erano molte del settore alimentare. Le più grandi erano la Cademartori a Gorgonzola, l’Invernizzi e la Galbani a Melzo. A Melzo, tra l’una e l’altra davano lavoro a più di mille operai. Poi c’erano la Ferrero, che aveva 500 dipendenti, e il salumificio Sala, tutte e due a Pozzuolo Martesana. Insomma, grosse realtà. In quegli anni gli alimentaristi avevano diciassette contratti diversi e quindi erano sempre in ballo per i rinnovi.

Agli alimentaristi
Un giorno Sandro Pastore, allora segretario organizzativo all’Unione di Milano, mi mandò a chiamare e mi disse che dovevo seguire la mobilitazione per il rinnovo del contratto dei salumifici, dal momento che il segretario degli alimentaristi di Milano, si chiamava Umberto Lamagni, era in America e quindi non poteva occuparsene. C’era in programma uno sciopero e per fare il volantinaggio, in via Tadino mi diedero una Cinquecento. Così cominciai ad avvicinarmi a questo mondo, naturalmente senza dimenticare le altre realtà: se c’era da dare una mano per un picchetto in una fabbrica tessile o meccanica non mi tiravo indietro di sicuro…. Seguivo le aziende, facevo le vertenze, finché agli inizi del 1968 venni chiamata ad entrare nella segreteria della Fulpia, la categoria degli alimentaristi. Allora si cominciava a parlare di unità sindacale e su questo tema o avevo una posizione e Lamagni un’altra. La cosa creò qualche divisone interna, poi Lamagni andò a Roma nella segreteria nazionale della categoria e io nel 1969 divenni segretario generale. In quegli anni a Milano c’era un effervescenza culturale incredibile. C’era gente come Pastore, Rino Caviglioli, Bruno Manghi, Pierre Carniti, Fausto Sartori, Pippo Morelli, Pippo Torri, Renzo Cattaneo. Era una scuola permanente di sindacalismo. Il fior fiore della Cisl era concentrato qui. Da numero uno della Fulpia ebbi molto da fare: eravamo sempre in pista per i contratti. La zona era vasta e io andavo su e giù con la Cinquecento: Milano, Besana Brianza, Melzo, Gorgonzola, Vimercate, fino a Vaprio d’Adda. Caricavamo la macchina di volantini e andavamo a distribuirli davanti alle fabbriche. Facevamo un imbuto con il cartone, dentro ci mettevamo i volantini, e poi lo attaccavamo ai cancelli. Le aziende erano di diversi tipi, ce ne’erano di grandi, come la Motta, l’Alemagna, la Galbani, ma anche tante piccole o medio-piccole. Era un lavoro immane, non so quante notti ho fatto in giro per la provincia. Per fortuna ho sempre avuto ottimi collaboratori: in segreteria sono stata via via affiancata da Luigi Nerini, Carlo Bramati, Etta Olgiati e Guido Margonari. Tra gli operatori ricordo Anna Ponzellini. Sono arrivata che c’erano 1.500 iscritti, quando sono andata via erano settemila, segno che si è lavorato bene. E’ stato un periodo faticoso, ma anche molto fruttifero: abbiamo conquistato la possibilità di fare assemblee, di avere delegati con i permessi sindacali, si sono avviate diverse esperienze di contrattazione aziendale, oltre a quella nazionale. Il merito riguardava, in particolare, i premi di produzione e le qualifiche. Nei contratti dolciari e carne abbiamo ottenuto il diritto di assemblea, prima che venisse inserito nello Statuto dei lavoratori. Abbiamo fatto tanti scioperi, tante vertenze. Questa fase così vitale è stata favorita anche dal cambio della dirigenza romana, con l’avvento di Eraldo Crea e Idolo Marcone nella segreteria nazionale della Fulpia. Crea e Marcone sono stati dei buoni maestri. Nel sindacato ne ho avuti tanti di buoni maestri. Lo stesso Pastore era di una umanità e sensibilità molto particolari. Ma ho imparato anche da alcuni amici della Cgil, persone di cultura opposta alla mia che, però, mi hanno dato qualcosa. Penso ad Andrea Gianfagna e a Nella Marcellino, entrambi della segreteria nazionale della Fulziat, come allora si chiamava il sindacato degli alimentaristi nella Cgil. Con la Cgil i rapporti erano buoni, sulle grandi vertenze c’era unità d’azione. Ho cominciato a partecipare alle manifestazioni per il Primo Maggio quando della Cisl eravamo in tre ad andarci. Tornando alla contrattazione, io partecipavo anche alle trattative per i rinnovi nazionali. Si partiva in treno da Milano e si viaggiava di notte. A Roma ci incontravamo nella sede di Confindustria, che prima si trovava in piazza Venezia e successivamente si è trasferita all’Eur. Si facevano le mattine a discutere. Con il tempo siamo riusciti a scendere da diciassette contratti a tre raggruppamenti, poi ad uno solo. In quegli anni ho poi seguito diverse vertenze esemplari, ma le più dure sono state quelle alla Motta e Alemagna. Abbiamo fatto anni e anni di lotte infinite, durissime, a tutela dell’occupazione. Lotte che coinvolgevano sei, settemila persone. Con la stampa addosso, che seguiva queste vicende con un interesse eccezionale. Alla fine un gruppo di giornalisti ne fece anche un libro. La gente, i milanesi, era dalla nostra parte. Ricordo che arrivammo ad occupare la fabbrica di viale Corsica, dove un giorno venne a dire messa il cardinale di Milano Giovanni Colombo. Il regista Giorgio Strelher mise in piedi uno spettacolo al Piccolo Teatro per sostenere la lotta dei lavoratori. Nello stabilimento di Segrate facemmo un’esperienza di autogestione, poi ripetuta alla Fioravanti, azienda che produceva tortellini, di Milano. La Fioravanti riuscimmo anche a farla requisire dal sindaco Aldo Aniasi. La Cisl aveva un’ottima rete di attivisti ed era molto apprezzata per il lavoro che faceva. Poi iniziò il periodo delle ristrutturazioni, delle chiusure, che io seguii anche dopo aver lasciato la categoria. Nel corso degli anni mi è capitato di incontrare delle persone che allora persero il posto, ma che conservano un buon ricordo di noi perché sanno che abbiamo fatto tutto il possibile per evitare i licenziamenti. In coscienza abbiamo davvero fatto tutto quanto era in nostro potere per tutelare i lavoratori. Il passo successivo della mia vita nel sindacato è stato l’ingresso nella segreteria dell’Unione. Era il 1975, il segretario generale era Mario Colombo. In segreteria c’era anche Manghi. Furono anni difficili, erano gli anni del terrorismo. Alla Cisl di Milano ci fu una fase di dura contestazione. Cominciava “l’era Tiboni” (Piergiorgio Tiboni era l’allora segretario della Fim territoriale), quando vennero raccolte mille firme contro la politica confederale portata avanti da Luigi Macario. La Cisl si impegnò a fondo contro il terrorismo e la strategia della tensione, dando un forte contributo alla lotta per la difesa delle istituzioni democratiche. Il motto di allora era “la democrazia si difende con la democrazia”. Io partecipai a tutte le manifestazioni. Ricordo ancora come fosse oggi i funerali di Walter Tobagi. Quella fase fu anche segnata dall’incidente all’Icmesa di Seveso, nel 1976, con la fuoriuscita della diossina che contaminò e inquinò gravemente alcuni paesi della Brianza. Una vicenda drammatica, che seguimmo da vicino. Rimasi nella segreteria di via Tadino fino al 1980. Dal punto di vista strettamente sindacale mi occupai di contrattazione, mercato del lavoro e aziende in crisi. In quel periodo la Cisl milanese diede vita, da un’idea di Manghi e con l’aiuto di Giorgio Bozzeda, un operatore di allora, ai campi scuola autogestiti. Una grande esperienza di vita. Si alternavano attività formative ad altre ricreative. Ne abbiamo fatti diversi, soprattutto in Valtellina e Trentino. I partecipanti si occupavano di tutto, comprese cucina e pulizie. Da milanese l’iniziativa ha poi assunto dimensioni sovraregionali, coinvolgendo le Cisl della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna.

Segretario generale della Cisl Lombardia
Da via Tadino ad un certo punto mi chiesero di entrare nella segreteria regionale. Accettai solo per spirito di servizio verso l’organizzazione. Era il 1980. L’idea di trasferirmi al regionale non mi piaceva anche se poi si rivelò una buona esperienza. Il segretario generale era Melino Pillitteri. Oltre a me c’erano Paolo Nardini, Emilio Zeni, Gianni Bon, Antonio Gilardi e Fiorindo Fumagalli. Io avevo la delega all’organizzazione e amministrazione. In quel periodo era in corso un dibattito interno tra “sinistra” e “destra”, tra “carnitiani” e “mariniani”. Ti mettevano addosso l’etichetta: quelli di sinistra dicevano che io ero di destra, quelli di destra che ero di sinistra. Io mi consideravo “carnitiana” ma ero anche amica di Marini. Per me al primo posto c’è sempre stata la Cisl e basta…. e poi la nostra gente, gli iscritti certe cose non le capivano. Nel 1983 si pose poi il problema della successione a Pillitteri, che fu chiamato a Roma a sostituire il presidente dell’Inas, scomparso prematuramente. Il candidato naturale era Bon, ma c’era chi non era d’accordo; c’era Zaverio Pagani, segretario dell’Unione di Bergamo, poi si parlò di Sandro Antoniazzi…. Il fatto è che non si trovava la quadra. Un bel giorno mentre mi trovavo a Roma – ero lì perché, per la mia passione per le cooperative, facevo anche parte della presidenza dell’allora nascente Cenasca – venni chiamata nell’ufficio di Marini, con Carniti in ospedale perché aveva avuto un infarto. Marini, senza troppi giri di parole, mi disse che insieme a Carniti avevano deciso di affidare a me l’incarico di segretario generale della Cisl lombarda. Lì per lì tergiversai un po’, ero perplessa, sostenni che c’erano altre candidature, ma fu inutile. Le stesse cose me le ripetette Carniti quando andai a trovarlo in ospedale. Come aggiunto fu designato Fiorindo Fumagalli. L’elezione da parte del consiglio generale avvenne a Bergamo nel giugno del 1984. Io però fui molto chiara con Carniti e Marini, perché dissi subito loro che consideravo il mio incarico a termine. Era la prima volta che una donna raggiungeva una posizione di così alto livello nella Cisl. In quegli anni credo di avere lavorato bene, nel solo interesse dell’organizzazione e dei suoi rappresentati. Ho fatto le mie scelte, senza guardare agli schieramenti. Ho trattato tutti alla stessa maniera, non ho fatto il segretario di una o dell’altra parte. Io che ero considerata di sinistra (nel sindacato) non ho esitato a sfiduciare due segretari di due comprensori di allora, Gianbattista Ossola a Lodi-Crema e Luisa Cucchi a Vigevano-Abbiategrasso, perché avevano una posizione diversa rispetto alla Cisl sul referendum per l’abrogazione della scala mobile: l’organizzazione era nettamente schierata per il “si”, loro per il “no”, come la Cgil e il partito comunista. Non fu una decisione facile, con la Luisa ero anche amica, ma non potevo permettermi deviazioni di rotta su una questione così importante. Il referendum ci assorbì moltissime energie. La campagna referendaria fu molto impegnativa. Prima del voto facemmo una grandissima manifestazione al palazzo dello sport di Milano con Carniti, alla quale parteciparono migliaia di persone. Me la ricordo ancora. Fu un momento straordinario. Non è stato un periodo semplice. Fu il periodo in cui tirarono i bulloni a Giorgio Benvenuto, allora segretario nazionale generale della Uil. I miei colleghi regionali erano Antonio Pizzinato, a cui poi subentrò Pino Cova per la Cgil e Loris Zafra per la Uil. Con Pizzinato avevo ottimi rapporti, era una brava persona, capace, ci si trovava anche al bar, ma dopo il voto referendario ci fu qualche tensione. Referendum a parte, durante il mio mandato gestii i rapporti con la Regione, prima guidata da Giuseppe Guzzetti, poi da Bruno Tabacci, e mi occupai di alcune grosse crisi industriali, soprattutto nel settore siderurgico. Come avevo previsto, lasciai l’incarico all’assemblea organizzativa che si tenne a Milano nel 1987 e il mio posto fu preso da Sandro Antoniazzi, anche perché nel frattempo il mio aggiunto, Fumagalli, era andato a Roma a fare il segretario degli elettrici. Chiuso il percorso al regionale per me si apriva una nuova fase.

A Roma
Ormai avevo rinunciato a ogni incarico politico, quindi nel 1988 accettai di andare a lavorare a Roma alla confederazione come operatrice per la formazione e le politiche giovanili. Per me significava tornare indietro negli anni, ai tempi dei campi scuola milanesi. La formazione mi ha sempre interessato e quindi ero contenta, ma ben presto mi disillusi. Il responsabile nazionale era Luca Borgomeo. Io ero praticamente disoccupata. All’ufficio formazione non mi facevano fare quasi niente. Arrivavo a Roma il lunedì e ripartivo il venerdì, ma era tutto tempo sprecato. Ogni tanto andavo da Marini a lamentarmi, a chiedergli di intervenire, ma lui poteva fare ben poco, nel senso che non poteva tampinare tutti i giorni Borgomeo. Oltretutto politicamente non era un bel periodo perché all’interno dell’organizzazione si parlava già della sua successione a capo della Cisl. Per fortuna nel 1990 venni nominata al Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Quella fu una bella esperienza. Io facevo parte della Commissione incaricata di costruire un archivio della contrattazione. Eravamo un bel gruppo, con un presidente molto attivo. Lavoravamo tre giorni alla settimana molto seriamente. Partecipavo anche a diversi convegni, ma l’impegno al Cnel non mi occupava a tempo pieno per cui posi il problema del mio utilizzo alla segreteria confederale, alla cui guida nel frattempo era arrivato Sergio D’Antoni, con Luigi Cocilovo delegato alla formazione e ai giovani. Andai da loro e gli dissi: “Non intendo più venire su al quarto piano ad occupare una sedia, se ci sono compiti da affidarmi bene, altrimenti è meglio che me ne vada”. E così accadde. Si trovò un accordo e tornai all’Unione di Milano, con l’incarico di seguire il Cesil, il servizio stranieri, attività che svolgo ancora oggi. Per tre anni ho fatto la pendolare tra Milano e Roma. Stavo due giorni in via Tadino e tre nella capitale, al Cnel. Fu un periodo molto intenso. Poi la mia vita nel sindacato prese un’altra strada: nel 1993 venni infatti eletta nella segreteria regionale della Fnp, i pensionati. Il segretario generale era Nevio Petretti, in carica dal 1985, a cui a fine anno subentrò Luigi Battisti. L’inizio, nonostante la lunga esperienza di sindacato che avevo alle spalle, non fu semplice, anche perché mi venne affidata la delega alla sanità, un argomento di cui non mi ero mai occupata, se non marginalmente. Poi con lo studio e l’attività sul campo ho cominciato ad ingranare e ad appassionarmene. La sanità, soprattutto in un’organizzazione che rappresenta persone anziane, è un tema fondamentale, che va seguito attentamente. E’ stato un periodo molto intenso, di lotte, mobilitazioni e campagne, come quella chiamata “Dare voce a chi non l’ha”, a tutela dei diritti dei pensionati. Ci siamo occupati di salute, assistenza, case di riposo, non autosufficienti, insomma di politiche socio-sanitarie-assistenziali a 360°. In quegli anni abbiamo avuto una grossa interlocuzione con la Regione, anche perché nel 1997 il Pirellone ha approvato un provvedimento, la famosa legge 31, che ha ridisegnato e cambiato radicalmente il sistema sanitario lombardo. Ci sono stati momenti di confronto e di scontro anche aspri. Unitariamente con Cgil e Uil abbiamo pubblicato due “libri neri” sulle liste di attesa per gli esami diagnostici. Con la Spi-Cgil e il suo segretario generale, Franco Rampi, i rapporti erano buoni. Inoltre è stata avviata un’intensa fase di contrattazione con l’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e le amministrazioni locali, per la predisposizione di interventi di vario tipo a favore della popolazione anziana. Insomma non c’è stato il tempo di annoiarci. Nel gennaio del 2000, con l’elezione di Arnaldo Chianese a segretario generale, sono diventata segretario generale aggiunto, incarico che ho mantenuto fino a meta del 2002, quando sono tornata a Milano, questa volta a fare il segretario generale della Fnp. L’elezione è avvenuta il 20 giugno del 2002 e adesso sono ancora qua. E’ un’esperienza molto interessante, ma anche impegnativa. Da Milano, in questi anni, abbiamo dato il nostro contributo alle lotte avviate a livello nazionale dai sindacati dei pensionati a tutela delle condizioni di vita degli anziani, a protezione del valore delle pensioni e per la costituzione di un fondo per i non autosufficienti. La costituzione del fondo è un po’ il mio sogno. Non si tratta di un compito semplice perché l’interlocuzione con il governo è stata sempre problematica. Lo stesso si può dire per ciò che riguarda i rapporti con l’amministrazione comunale milanese. Ma noi non ci diamo per vinti. L’Italia è un Paese che sta progressivamente invecchiando e questo è un fatto di cui dovranno tenere conto tutti i governi che verranno. Ho iniziato la mia attività sindacale a Milano e la terminerò a Milano. Devo dire che sono contenta di quello che sono riuscita a fare e delle scelte che ho compiuto. Ho dedicato la vita alla Cisl, ma in cambio ho ricevuto delle belle soddisfazioni. Anche a distanza di tempo, come quando a Natale ti telefona l’operaio della Fioravanti, ormai ottantenne, per gli auguri. L’impegno è stato totalizzante: ho vissuto momenti duri, difficili, e altri straordinari, bellissimi. Ho avuto modo di conoscere persone di eccezionale valore. Lavorare nel sindacato è un’esperienza umana unica.