Cinema e lavoro – Il tempo dei cavalli ubriachi

Milano, 24.10.2016
 
REGIA: Bahman Ghobadi   SCENEGGIATURA: Bahman Ghobadi  FOTOGRAFIA: Saed Nikzat MONTAGGIO: Samad Tavazoee  MUSICHE: Hossein Alizadeh INTERPRETI: Nezhad Ekhtiar-Dini, Amaneh Ekhtiar-Dini, Rojin Younessi, Madi Ekhtiar-Dini, Ayoub Ahmadi, Karim Ekhtiar-Dini, Osman Karimi, Kolsolum Ekhtiar-Dini, Rahman Salehi PRODUZIONE: Bahman Ghobadi Films, Farabi Cinema Foundation, Mk2 Productions DISTRIBUZIONE: Andrea Occhipinti e Georgette Ranucci per Lucky Red (2001) DURATA: 80 Min
 
Nel Kurdistan iraniano, vicino al confine con l’Iraq, una famiglia composta da cinque tra fratelli e sorelle vive in condizioni di estrema precarietà. Il fratello più giovane, Madi, soffre di una grave malattia, che lo ha fatto restare alle dimensioni del ‘nano’. Il medico dice che l’unica possibilità è legata ad un intervento chirurgico da effettuarsi prima possibile e che però servirà solo a prolungargli la vita di qualche mese. Ma ci vogliono oltre 5000 denari. Ayoub, l’altro fratello, trova lavoro nel trasporto merci in Iraq. Lavora due mesi ma non mette da parte quasi niente. Lo zio combina allora il matrimonio della sorella più grande con un iracheno che si dice disponibile a pagare l’operazione. Si incontrano alla frontiera ma a questo punto la mamma del futuro consorte si rifiuta di prendersi in carico il malato. Offre in cambio un mulo, che lo zio accetta. Allora Ayoub pensa di tornare in Iran per vendere il mulo. Lungo il cammino c’è un’imboscata. Ayoub resta solo col mulo che non cammina più. Chiede aiuto, viene soccorso, e insieme ad altri riesce a passare il confine.
 
Film importante per molte ragioni. Anzitutto perché racconta il dramma di una minoranza come i kurdi, oggetto di genocidio turco e non solo, attraverso la vita di un villaggio da uno dei pochi registi curdo-iraniani. Poi perché racconta la durezza del lavoro dei bambini e del dolore del mondo (compresi i cavalli del titolo). Infine perché si tratta di un grande “piccolo film” sulla dignità umana calpestata.
 
LA CRITICA
 
Ottanta minuti duri e puri da non perdere. Piccola grande storia interpretata dai protagonisti, cinema-verità sui bambini curdi orfani che resistono in un villaggio, tra le montagne innevate, ai limiti della sopravvivenza (…). C’è un ‘montatore di ripresa diretta’ nel cast tecnico, per dire la povertà e la verità del set guidato dall’iraniano esordiente Bahman Ghobadi, allievo di  Kiarostami. Più concreto, meno formalista delle ‘lavagne’ di Samira Makhmalbaf. Per conoscere e assaggiare la vocazione rapace e umanitaria del cinema. Un film nel vento della Storia. Premio Camera d’Or a Cannes”. (Silvio Danese, ‘Quotidiano Nazionale’, 6 aprile 2001)
 
“‘Il tempo dei cavalli ubriachi’ è interpretato da personaggi veri, presi per strada, ambientato in un paesaggio impervio, innevato, desolato, raccontato con toni struggenti e partecipati. Siamo nei territori consueti cui il nuovo cinema iraniano ci ha abituati: bambini come metafora, stile essenziale e quasi documentaristico, nessun compiacimento estetico, la politica che si fa poetica, una dignità espressiva vicinissima al neorealismo. Anche se il regista Barman Ghobadi, già aiuto di Kiarostami, è in realtà curdo, dunque rappresentante d’una minoranza etnica di un popolo in diaspora, d’una cultura oppressa. (Fabio Bo, ‘Il Messaggero’, 6 aprile 2001)
 
 Già assistente di Kiarostami, il regista Bahman Ghobadi sa trovare una misura di rara sintesi cinematografica. E denunciando le condizioni in cui vivono i bambini curdi, massacrati dal nemico inverno e dalla guerra con l’Iraq, ci consegna anche pagine di grande cinema: fatto di rabbia e amore per la vita. Imperdibile. (Remo Binosi, ‘Grazia’, 10 aprile 2001)
 
“‘Il tempo dei cavalli ubriachi’ è ammirevole per come riesce a sfuggire a un’infinità di trappole implicite nelle sue premesse. A priori, non è certo difficile commuovere chi sta seduto in platea, protetto e al sicuro da ciò che vede, con un soggetto come questo. Molto più difficile riuscire a commuovere senza martirizzare i personaggi, senza rinunciare mai al pudore e alla dignità. A ben vedere, quella di Ghobadi è una posizione coraggiosa anche a fronte del cinema iraniano, oggi tra i migliori al mondo ma che mostra anche la tendenza a un certo conformismo ‘di scuola’. Se il regista non ha nulla da invidiare al senso dell’inquadratura dei suoi connazionali più conosciuti, la sua scelta è molto più lontana dalla moda dei film alla Kiarostami: è soprattutto una scelta di emozioni, che rende questa storia intensa e coinvolgente nonché accessibile al grande pubblico. Qualcosa che evoca, e non soltanto per l’uso di attori non professionisti, l’esperienza del nostro neorealismo. (Roberto Nepoti, ‘la Repubblica’, 8 aprile 2001)
 
Il film di Ghobadi ci ricorda le emozioni del neorealismo italiano degli anni ’40, e la sua meraviglia sta nel modo, mai lacrimoso, mai eccessivo, con cui nelle inquadrature semplici, intense, racconta una storia vera, tuttora non risolta, interpretata dai veri personaggi. E’ un bellissimo film, che dovrebbe incantare i nostri viziati bambini, perché racconta, di altri bambini, l’ingegnosità, la forza, l’amore e la dedizione reciproca, lo sperdimento ma anche la serenità, la capacità di andare avanti in un contesto di vita drammatico, privo di tutto. (Natalia Aspesi, ‘D’, 24 aprile 2001)
 
Girato con un budget minimo, ‘Il tempo dei cavalli ubriachi’ ha la forza e l’impatto della verità che rispecchia: pur essendo la vicenda affabulata, tutto è preso rigorosamente dalla vita. Incluso il ragazzino handicappato che, grazie alla distribuzione italiana del film, ora potrà giovarsi dell’intervento operatorio indispensabile alla sua sopravvivenza”. (Alessandra Levantesi, ‘La Stampa’, 10 aprile 2001)
 
Quello descritto nel film è un mondo di bambini costretti a diventare adulti troppo presto, dove ogni giorno si può restare orfani o saltare su una mina, e dove un quaderno, come quello che Ayoub regala ad Amaneh, sembra il dono più prezioso. Il finale è aperto, lasciando spazio alla speranza ma facendo anche intuire che le sofferenze non sono finite. (Matteo Migliavacca – Unipv)