Milano, 6.6.2014
Regia e Fotografia: Artur Aristakisjan Interpreti: Anna Chernova, Vitali Khayev, Roman Atlasov Documentario – Produzione VGIK Distribuzione: Raro Video Durata: 122’
Dieci “capitoli” sull’esistenza miserabile di mendicanti e senza casa nella Russia di oggi. Un vero e proprio popolo composto di senzatetto, barboni, poveri, malati di mente, emarginati si riversa nelle strade delle città dopo il crolo del regime comunista. L’ipocrisia propagandistica del vecchio regime aveva infatti provveduto a rinchiudere queste persone nei gulag o negli ospedali psichiatrici. Ora che i campi di rieducazione non ci sono più e i manicomi ricoverano solo dei veri malati. Il bubbone esplode in tutta la sua virulenza.
Uno sguardo disperato su un mondo fatto di miseria. Un film di laurea del giovane regista dalle immagini di grande impatto che mostra un certo aspetto della crisi nella Russia
LA CRITICA
Espressiva, inquietante documentazione in bianco e nero, girata in uno stile che concilia realismo e suggestioni lirico-visionarie. Il tutto è accompagnato da un altrettanto mosso, penetrante commento sui meccanismi e sul significato dell’emarginazione sociale.(FilmTv)
Ladoni comincia con le immagini di un film muto ambientato nel 28 d.c. a Roma durante per persecuzioni nei confronti dei cristiani – assistiamo infatti ad una scena ambientata nel Colosseo in cui i corpi dei cadaveri vengono divorati dai leoni. A questo brutale incipit seguiranno due ore in cui la macchina da presa pedinerà i movimenti dei mendicanti nella città di Kishinev. Aristakisjan mostra senza patetismo i corpi dei suoi tristi protagonisti affetti da handicap e menomazioni fisiche. Perché esso non dev’essere più esclusivamente “corpo”, ma farsi spirito per ritrovare la sua completezza, la sua umanità, la sua dignità. Riprendendo Pasolini – il regista più amanto da Aristakisjan -, il narratore afferma, infatti, che tutto è sacro, che il dentro deve farsi esterno, che lo spirito deve farsi corpo. Opporsi a quel materialismo – e l’estremizzazione illuminista teorizzata da Adorno -, che ha portato alle aberrazioni storiche del Novecento (le dittature, il nazismo, il comunismo), dove i corpi (come nelle immagini del film muto) diventano carne da macello, rimossi da ghettizzare (le baracche nelle periferie di Kishinev). Come in Accattone, Aristakisjan affianca alla povertà dalle immagini la musica classica (in questo caso, di Giuseppe Verdi), cercando con ostinazione quel punto di convergenza tra sacro e profano, tra alto e basso, che può rivelarsi salvezza di un mondo che non vuole più vedere. (AtTheActionPark – FilmTv)
Diviso in 10 capitoli e ambientato tra il popolo dei mendicanti della natia Kishinev, capitale della Moldavia, il 1° dei 2 unici film di Aristakisjan è, con Un posto nella terra, una delle opere fondamentali e più originali sulla crisi della Russia postsovietica. Strutturata come una lettera audiovisiva rivolta a un figlio non ancora nato, è una storia di emarginati che si interrogano sui meccanismi dell’esclusione sociale, analisi alla quale si sovrappone la voce over dell’autore. Enigmatico nella sua complessità, il discorso spiega il conflitto tra il Sistema e lo Spirito: l’uno corrompe, opprime e sopprime; l’altro deve essere condiviso con uno stoicismo ascetico simile a quello in cui vivono i mendicanti. È un film impervio e prolisso “ma la monocroma fotografia può essere molto bella e i mendicanti sono filmati con un rispetto che non è sentimentale né fatuo” (Nick Bradshaw). (M. Morandini)
Da una intervista al regista
…Come arrivasti a fare cinema?
Durante un periodo di 7 anni mi recai a Mosca per vedere se mi ammettevano alla scuola di cinema. Mi rifiutavano sempre. Gli esami li tenevano registi famosi che, quando mi guardavano in faccia, dicevano “No, no, questo no”. Nel 1988, anno in cui si compì un millennio di cristianità in Russia, fu aperto una specie di corso per venti tipi strani come me, gente che aveva sedici anni e già era stata in carcere e cose simili, curato da un documentarista che vedeva qualcosa in questi personaggi che aveva in classe. Il professore era ancora più strano. Filmava le cose che nessuno voleva filmare, come per esempio alcuni pellegrini del polo nord che si mettevano addosso delle specie di ali. Nessuno degli altri riuscì a girare dei film. Io non avevo soldi, e per questo ero l’unico al quale era permesso dormire nella scuola. Per 5 anni io vissi così, vendendo quello che possedevo. I miei genitori mi aiutarono molto, fu una storia molto curiosa. Anche se erano intellettuali vivevano nella povertà più assoluta, senza acqua e senza elettricità. Un giorno mia madre si stancò e decise che dovevano emigrare. Andò all’Ambasciata Tedesca e dichiarò che tutta la sua famiglia era stata sterminata dai nazisti e che sapeva che c’era un programma per le vittime per emigrare in Germania e che li avrebbero aiutati. Le dissero che per verificare i dati ci sarebbero voluti 3 anni. Arrivò a casa senza speranze, così mio padre andò ancora all’Ambasciata Tedesca e dichiarò che mio nonno era morto in Romania combattendo per i nazisti nella cavalleria. Lo ricevettero a braccia aperte: gli dissero che era un eroe di guerra e che Hitler aveva creato nel ’44 un fondo per gli stranieri che morivano difendendo il Reich e che questo fondo era ancora accessibile. Chiese quanto ci avrebbero messo a verificare i dati e gli dissero: 2 giorni. Ed effettivamente in un paio di mesi emigrarono e oggi vivono a Norimberga. Prima però vendettero quel poco che avevano e me lo dettero perché io continuassi a studiare.
Quando realizzasti il tuo primo lungometraggio?
Lo realizzai per laurearmi nel 1994. E’ un documentario chiamato Palms (Ladoni) che fu presentato al festival di Berlino. Il film ebbe successo, così cercai di essere accolto nel sindacato dei registi e mi rifiutarono. Feci ricorso e mi ammisero. Il film vinse il premio come miglior film russo dell’anno…