My Name is Joe

Milano, 21.3.2016
 
REGIA: Ken Loach  SCENEGGIATURA: Paul Laverty  FOTOGRAFIA: Barry Ackroyd   MONTAGGIO: Jonathan Morris   MUSICHE: George Fenton INTERPRETI: Peter Mullan, David McKay, Lorraine McIntosh, Annemarie Kennedy, Scott Hannah, Gordon McMurray, David Hough, David Peacock, James McHendry, Paul Clark, Stephen McCole, Paul Gillan, John Hamill, Louise Goodall, David Hayman, Gary Lewis PRODUZIONE: Channel 4 – Bim Distribuzione – The Glasgow Film Fund – Road Movies Vierte Produktionen DISTRIBUZIONE: Columbia Tristar Film Italia – Medusa – Mondadori  DURATA: 105 Min
 
 
 
A Glasgow, ad una riunione degli Alcolisti Anonimi, Joe dice che non beve più da quasi un anno e che si sente pronto a cominciare una nuova vita. Nella squadra di calcio che ha messo su c’è Liam, dedito alla droga, che vive con Sabine e il loro figlioletto Scott. Nell’incarico di tenere sotto controllo questa famiglia, Sarah, impiegata alla Sanità, conosce Joe ed ha una relazione con lui. Durante una partita, gli uomini di McGowan , uno spacciatore, aggrediscono Liam, che non ha pagato i propri debiti. Liam confessa a Joe di non avere i soldi necessari, Joe affronta McGowan che gli propone di saldare il debito con un lavoretto da fare subito. Joe accetta e guida verso un porto scozzese una macchina piena di droga…
 
 
Bel ritratto di una umanità sconfitta che vive di sussidi di disoccupazione ed alle prese con l’assistenza sociale ed il mondo della droga. Un film che racconta il degrado urbano, la miseria e la inadeguatezza delle istituzioni. Il tutto raccontato attraverso una ironia affettuosa che non nasconde la tragedia.
 
 
LA CRITICA
 
“Splendido dramma sociale dell’inglese arrabbiato Ken Loach, che s’inabissa nella Glasgow più miserabile, dove è impossibile sottrarsi alle spietate regole della malavita. Un film pieno d’angoscia, che non conosce la pietà e non concede speranza, eppure offre scampoli di irresistibile umorismo nella parentesi dedicate al pallone. Occhio a Peter Mullan, un attore coi controfiocchi”. (Massimo Bertarelli, ‘Il giornale’, 29 giugno 2001)
 
Peter Mullan offre un contributo non secondario a questo film di Ken Loach (riconosciutogli a Cannes con il premio quale migliore attore). È grazie alla sua interpretazione che prende corpo uno dei personaggi destinati a stagliarsi nella filmografia loachiana. Joe ha una personalità complessa: inadatto al compromesso ha un passato da cui vuole liberarsi ma che ne condiziona il presente. La sua vocazione paterna si esplicita nella conduzione della squadra di calcio così come nel desiderio di evitare a Liam e Sabine di sprofondare in dipendenze analoghe a quella che lo ha segnato. È, a suo modo, un assistente sociale senza titoli di studio ma quando incontra Sarah è costretto a ricercare in se stesso le motivazioni più profonde e a confrontarsi con il rapporto che intercorre tra mezzi e fine. La sua generosità innata, il suo bisogno di correre in soccorso di chi è fragile (avendo sperimentato la fragilità) lo mette in contrasto con l’etica di Sarah. La donna (di cui Loach ci offre un nudo che non ha nulla della siliconata ostentazione che invade tanto cinema ma che invece ci richiama saggiamente alla normalità) non manca di attenzione nei confronti dei propri assistiti ma non può accettare che si travalichino certi limiti anche se non farlo può significare il precipitare di una o più vite nella disperazione. È un contrasto che trova nella sequenza finale uno sbocco a cui spetta allo spettatore fornire un’ulteriore significazione. (Giancarlo Zappoli, “MyMovies”)
 
Loach maneggia questa sentimental comedy con la stessa leggerezza con cui aveva costruito la storia d’amore tra il conducente d’autobus e Carla nella “Canzone di Carla” (sceneggiato, come questo, da Paul Laverty). E la commedia si sposta verso un nero di devastante lucidità sociale, mentre il pessimismo di Loach si fa sempre più sconsolato. (FilmTv)
 
Sullo schermo finzione e realtà sono facili da confondere e a volte impossibili da distinguere. Sembrano veri Joe e Sarah, impegnati in un insolito duetto amoroso nella cornice della Glasgow operaia: lui è un ex alcolista che fa l’allenatore di calcio per una squadretta di dilettanti, lei lavora nell’assistenza medica. Si direbbero davvero prelevati dalla vita di quel sottomondo che Loach rispecchia con sociologica fedeltà e irrinunciabile senso dello spettacolo. In realtà abbiamo davanti due attori: esperto lui, Peter Mullan, una sorta di Paul Newman dei poveri, attivissimo in teatro e laureato sulla Croisette; e degna di tenergli botta lei, Louise Goodall. Non inganni nella prima parte il tono leggero alla Monicelli (penso al sottovalutato episodio populista di Boccaccio 70). Andando avanti l’amoretto fra Joe e Sarah, fino a un certo punto turbato solo da problemi personali, si rivela impossibile da vivere decentemente in un contesto dove tutti sono umiliati e offesi dai ricatti della mala. Joe ha preso a proteggere Liam, un giovanotto drogato e balordo, malamente incastrato dal gangster McGovern. Emerge un problema di vita e di morte, di fronte al quale, per salvare Liam dalle grinfie degli sgherri, Joe non ha altra scelta che di prestarsi a fare una consegna di droga; ne ricava un guadagno con il quale compra per Sarah un anello, prontamente rifiutato dalla donna che, stando così le cose, non vuol più saperne di lui. Allora Joe in preda a furore va nel covo di McGovern e spacca tutto; e Liam per salvare a sua volta l’amico dalla vendetta mafiosa si acconcia a una scelta fatale. La commedia muta in tragedia, sempre sotto il segno di una verità che l’arte di Ken Loach fa toccare con mano. Un film forte e lucido come gli altri dello stesso autore e forse ancora di più. (Tullio KezichIl Corriere della Sera5/12/1998 )
 

Da vivace ritratto, qua e là spassoso, del proletariato di Glasgow My Name is Joe diventa ben presto un dramma con venature thriller: infatti, per la prima volta da anni, gli autori – ovvero Ken Loach e il suo sceneggiatore Paul Laverty – chiedono ufficialmente di non svelare il finale, e noi ci guarderemo bene dal farlo. Si può dire invece, senza danneggiare il film, che My Name is Joe riporta Loach ai temi, e ai livelli, di Piovono pietre, che assieme a Riff-Raff e a Ladybird resta probabilmente il suo capolavoro. Anche stavolta, l’interrogativo morale è: può l’uomo commettere un reato, o ciò che è comunemente percepito come tale, per salvare i propri cari, o un proprio amico? Curiosamente in Piovono pietre la colpa era più estrema (un omicidio, anche se quasi involontario), ma la risposta era netta e arrivava addirittura dal prete del quartiere, quindi dalla Chiesa; stavolta, il peccato è assai più veniale ma la risposta è sfumata, perché il dilemma morale di Joe si confronta con valori quotidiani e “banali”: l’amore, la famiglia, l’onestà. My Name is Joe è l’ennesimo morality play di quel grande moralista del cinema (nel senso più nobile del termine) che è Ken Loach. Un film bello, intenso, e nella prima parte selvaggiamente divertente: da vedere senza dubbio alcuno. Inutile dire che il doppiaggio, per quanto eroico, non può restituire l’aspro dialetto scozzese dei personaggi: almeno a Roma, ogni lunedì e martedì al Nuovo Sacher, chi vuole può confrontarsi con l’originale. E apprezzare la grandezza di Peter Mullan (premiato a Cannes), che nei panni di Joe è qualcosa di più di