Rosetta

Milano, 18.4.2016
 
REGIA: Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne SCENEGGIATURA: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne FOTOGRAFIA: Alain Marcoen MONTAGGIO: Marie-Hélène Dozo INTERPRETII: Emilie Duquenne, Anne Yernaux, Olivier Gourmet, Fabrizio Rongione PRODUZIONE: Luc e Jean Pierre Dardenne, Michele & Laurent Petin per Les Films Du Fleuve/Rtbf/Arp Selection DISTRIBUZIONE: Key Films (1999)  DURATA: 90 Min
 
La giovane Rosetta viene licenziata e a nulla serve la sua furiosa reazione a questa decisione. Rosetta torna al campeggio alla periferia della città, dove vive insieme alla mamma, donna debole dedita all’alcool e ad occasionali prestazioni sessuali. Per mettere insieme qualche soldo, la ragazza vende alcuni abiti, poi riesce a trovare un nuovo lavoro. La mamma fugge dalla roulotte e scompare. Rosetta va a casa di Rigaud, che lavora con lei. Lui le offre la cena e una stanza per dormire. Prima di addormentarsi, Rosetta dice a se stessa che in questo modo lei può avere una vita normale. Il giorno dopo però al panificio perde il posto. Allora denuncia al padrone Rigaud, che guadagnava di nascosto sulla vendita di frittelle. Lui viene licenziato e lei riassunta al posto suo. Rigaud vorrebbe vendicarsi, arriva al campeggio, cade in acqua, lei vorrebbe lasciarlo annegare ma poi lo salva. La mamma torna al campeggio ubriaca. Rosetta allora telefona al laboratorio e dice che non andrà più a lavorare. La mamma è a letto, lei apre il gas e la segue. Ma la bombola è finita. Allora Rosetta esce, va a comprarne un’altra, torna verso la roulotte. Qui arriva Rigaut, lei si ferma, lascia la bombola, lo guarda.
 
Licenziata ripetutamente, spinta ai margini della società, Rosetta lotta con le unghie e coi denti per conquistare il diritto alla dignità. La messa a fuoco di un desiderio di integrazione frustrato. Un film che ha ampiamente meritato il premio a Cannes.
 
LA CRITICA
 
“Ti chiami Rosetta; mi chiamo Rosetta. Hai trovato un lavoro; ho trovato un lavoro. Hai una vita normale; ho una vita normale. Non cadrai nel buco. Non cadrò nel buco…” “Rosetta” nasce per non lasciare indifferenti. Non tanto per la sua forma: un Ken Loach più rabbioso e meno ironico, cinepresa in spalla, ostinata determinazione della sua indimenticabile protagonista. Ma al contrario perché sfugge ai limiti del realismo. Per l’attenzione di una sceneggiatura e una regia costruite al gesto ed all’oggetto quotidiano; il modo di indagare nello sguardo sfuggente di Rosetta come nel significato di un grembiule annodato dietro la schiena. Di frugare nel reale per ricavarne dei segni quanto simbolici ed eterni: camminare, correre, scavare, sprofondare, ascoltare, nutrirsi, faticare. La più sfruttata delle condizioni di lavoratore può diventare ancora un’impresa disperata. Più disperata della sopravvivenza stessa. E allora Rosetta si “aggrappa” a quell’idea di lavoro, a quella esigenza di normalità e di continuità con la disperazione di un animale ferito. Salvarsi, divincolarsi dal buco: “Rosetta” è un grande film, ed appartiene a tutti perché ha la forza delle cose qualsiasi. Palma d’oro a Cannes per il miglior film e per la migliore interpretazione femminile (Andrea Olivieri – Cinema del silenzio ).
 
“Un pezzo di cinema molto semplice, spoglio. E commovente. I fratelli Dardenne confermano con forza, dopo ‘La Promesse’, di essere in grado di appassionare senza cedere nella della loro integrità artistica, senza ‘intellettualizzare’ i loro propositi“. (Jean-Claude Loiseau, Telerama)
 
E’ sufficiente la prima sequenza a farci comprendere la dimensione del dramma che vive la giovane protagonista: la telecamera la segue mentre percorre i corridoi di una fabbrica, irrompe nell’ufficio del suo responsabile e chiede spiegazioni sul suo ennesimo licenziamento, urla, si dimena, rifiuta ciò che è inevitabile, si ritrova di nuovo senza lavoro.
L’abiezione di un quotidiano affannarsi al quale viene costretta dall’esistenza accompagna Rosetta nei suoi rituali e nei suoi spostamenti, sempre con lo stesso passo veloce, i suoi scarponcini, dalla roulotte dove vive insieme alla madre alcolizzata, al fiume dove pesca per procurarsi da mangiare, da un possibile posto di lavoro all’altro, tra il sogno di una vita normale e il disagio di una realtà soffocante che si manifesta con ricorrenti crampi allo stomaco rivelatori di debolezze nascoste e di rabbie silenziose.
All’occhio dello spettatore Rosetta non appare come un personaggio da compatire: la sua durezza non la rende simpatica, ossessionata dalla ricerca di un posto di lavoro, pur di ottenerlo, non rinuncia a tradire l’unica persona che sembra mostrare un sentimento per lei; è come un animale braccato che non si nasconde ma attacca per non essere sopraffatto, il predatore da cui difendersi è la società.
A conferma del disagio giovanile nei confronti del mondo del lavoro radicato un po’ in tutta Europa, un anno dopo l’uscita del film, in Belgio, è stata emanata la “legge Rosetta”, volta ad aiutare i giovani a trovare un impiego; la pellicola dei Dardenne ha quindi avuto anche il merito di essere un documento di grande utilità sociale rinnovando, dopo aver inaugurato uno stile tutto personale con “La promesse” il connubio che c’è tra etica e scelta di rappresentazione; è quindi il rapporto tra lo stato e l’individuo il cuore dell’intera pellicola riportandoci al pensiero Hegeliano quando sostiene che lo stato ha il compito di essere l’incarnazione suprema della moralità umana e quindi sia di per sé sede di valori; contrapponendosi sia al liberismo che all’assolutismo, presuppone l’idea che esso sia una totalità organica, quindi non una somma di persone ma una specie di corpo vivente che possiede le qualità non possedute dalle singole parti. Come un organo non ha vita staccato dal resto del corpo, così il singolo individuo non ha senso senza lo stato: non sono i cittadini a fondare lo stato ma è lo stato a fondare i cittadini. E allora perché questa scissione? Perché il messaggio che trasmette il film e che rispecchia tristemente molte realtà è un messaggio di sconfitta? Perché proprio rappresentando la realtà relega i principi del filosofo tedesco nel labile universo delle utopie, sottolineando l’inesorabile quanto irreversibile trionfo dell’individualismo, autentica piaga della società moderna.
Quella di Rosetta non è una scelta, come d’altra parte non lo è per la maggior parte dei disoccupati, dei licenziati; Rosetta è soffocata dal sistema, abbrutita dalla precarietà, la sera prima di addormentarsi cerca di esorcizzare la paura di cadere in un buco nero recitando nenie di autoconvincimento: “Tu sei Rosetta, io sono Rosetta. Tu hai trovato un lavoro, io ho trovato un lavoro. Tu hai un amico, io ho un amico”. Ma in fondo sa che il suo non sarà il sonno profondo delle coscienze tranquille: proprio all’amico trovato toglierà il lavoro con un’odiosa spiata, e non basterà in seguito la presa di coscienza del gesto a donarle la serenità di cui ha bisogno.
Sono il suo respiro, il rumore dei suoi passi, i suoni della strada a fare da colonna sonora al film; la macchina da presa non si allontana nemmeno un istante dalla coraggiosa protagonista, la accompagna fino al suo ultimo disperato tentativo di cambiare le sorti del destino, fino al suo ultimo disarmante, bellissimo, sguardo. (Marco Iafrate – Film Scoop)
 

 

Rosetta, figlia di un dio minore, ha le radici troncate e una traiettoria vitalistica che assomiglia agli ultimi guizzi di un corpo in agonia. Non sappiamo niente di lei, se non che vive con la madre (un’alcolista che si prostituisce per una bottiglia) in un campeggio squallido pieno di roulottes, alla periferia di un centro abitato. Guerrigliera del quotidiano – ogni giorno per recarsi in città segue percorsi clandestini, pescando di frodo, superando recinzioni, attraversando autostrade – essa emerge dal nulla con una precisa richiesta, il minimo possibile per vivere con dignità: una casa, un lavoro, degli amici. Ma le leggi della domanda e dell’offerta non obbediscono alla morale. Così la sua corsa disperata, verso un’occupazione che la faccia esistere agli occhi del mondo, si scontra con un cinismo legale che la ferisce e la trasforma. Tanto che, novello Giuda, denuncia proprio l’unico che le tende una mano e, rigettato il frutto del tradimento, corre a farla finita. Anche se qui, i Dardenne, che l’hanno braccata per un’ora e mezza senza mai mollare la presa, si fermano, per pudore e per pietà. E lasciano che la mano dell’offeso – il ragazzo che lei ha tradito –l’aiuti a rialzarsi. Per raccontarci tutto questo, i due registi optano per una messa in scena ossessiva e affannosa (in un’intervista parlano de Il castello di Kafka, come punto di partenza della storia): una sorta di movimento impossibile all’interno di una gabbia mentale, con la steady-cam che segue passo passo la protagonista, Emilie Duquenne. Quest’ultima, uscita direttamente da un casting di volti sconosciuti (eccetto quello di Olivier Gourmet, già “padre diabolico” di La promesse), è stata “allenata” per settimane a ripetere meccanicamente i gesti del suo personaggio (come raccontano i Dardenne nel press-book del film). Anche il montaggio delle scene, l’una incalzante sull’altra, va nel senso del respiro affannato, con un’anticipazione dei tempi che nega – agli autori come allo spettatore – qualsiasi compiacimento estetico. Il sonoro ambiente, senza musiche sovrapposte, gioca poi nella direzione di una spoliazione degli effetti, che impedisce la distrazione e concentra l’attenzione sui dettagli comportamentali, sui rumori di fondo. Infine la sceneggiatura, che non si concede alcun coup de théâtre, è finalizzata a registrare il presente, nient’altro che il presente. Nulla sappiamo di quello che Rosetta era, nulla sappiamo di quello che essa diverrà. […] Ciò che conta è ciò che è. Ciò che dovrebbe essere serve solo a consolare gli illusi. E loro non vogliono una Rosetta possibile. Vogliono che esista. […] (Luciano Barisone, Cineforum n. 385, giugno 1999)