Timbuktu

Milano, 16.3.2015
 
Abderrahmane Sissako è uno dei maggiori registi africani e l’ultima sua fatica, arrivata quasi clandestinamente nelle nostre sale il mese scorso, è forse il suo film più bello, vincitore di ben 7 Cesar (l’Oscar francese) e candidato sfortunato all’Oscar maggiore come miglior film straniero. Timbuktu racconta la vita di una famiglia nel deserto a poca distanza dalla città del Mali, da dove opera la jihad islamica con le proibizioni fondamentaliste  su  musica e sport, oltre all’ obbligo per  le donne al velo e la diffusione del terrore. Terrore che interesserà anche i nostri protagonisti dopo l’uccisione di una mucca della famiglia stessa. Due mondi a poca distanza: quello della famiglia dove regna l’armonia e quello degli integralisti raccontati attraverso un film che necessita della lentezza per entrare nelle dinamiche umane. Un film tutt’altro che anti-islamico che ne racconta anche la resistenza della popolazione e che noi spettatori occidentali dovremmo rivedere più volte per capire come si può utilizzare la fede per farne uno strumento di oppressione, senza scomodare le teorie sul colonialismo e le colpe occidentali. Un film che ci fa entrare in un mondo che alla bellezza dei paesaggi e delle musiche contrappone la tragicità (a volte anche l’assurdità) della vita.  Peccato che pochi lo hanno visto anche se prosegue il suo cammino sullo schermo e probabilmente nei prossimi cineforum.