Milano, 27.11.2014
REGIA: Tran Anh Hung SCENEGGIATURA: Tran Anh Hung, Nguyen Trung Binh FOTOGRAFIA: Benoît Delhomme MONTAGGIO: Nicole Dedieu, Claude Ronzeau MUSICHE: Tôn-Thât Tiêt INTERPRETI : Le Van Loc, Tony Leung Chiu Wai, Tran Nu Yên-Khê, Nguyen Nhu Quynh, Nguyen Hoang Phuc, Nguyen Van Day, Le Dinh Huy, Pham Ngoc Lieu, Vo Vinh Phuc, Doan Viet Ha, Ngo Vu Quang Hai, Nguyen Tuyet Ngan, Buy Hoang Huy, Le Kinh Huy PRODUZIONE: Giai Phong Film Studio, Vietnam – Les Productions Lazennec, France DISTRIBUZIONE: Columbia Tristar Film Italia DURATA: 120 Min
A Ho Chi Min nel Vietnam un “Giovane” diciottenne con un triciclo lavora duramente agli ordini della “Padrona”, che ha un figlio della sua età handicappato. I suoi genitori sono morti e lui vive con il nonno e due sorelle in un quartiere povero. Un giorno, però, gli rubano il triciclo, e lo lasciano tramortito, in mezzo alla strada. Per ripagare il triciclo il “Giovane”, privo di denaro, viene a poco a poco irretito nella banda del “Poeta”, al soldo della “Padrona”. Costui ha un gruppo di prostitute, e la sua preferita è la “Sorella” del “Giovane”, che si presta a malincuore ai giochi erotici di laidi personaggi, che hanno però l’obbligo di non deflorarla. Il boia della banda, che ha sgozzato un uomo davanti al “Giovane” per temprarlo e gli ha regalato il suo coltello, ben presto gli mostra come si maneggia il mitra. Il “Giovane” si sente forte: dà fuoco ad un magazzino; sfugge alla polizia; trasporta droga; arriva persino a vendicarsi del ladro che gli ha rubato il triciclo, accecandolo. Poiché un cliente ha stuprato la “Sorella” il “Poeta” lo accoltella barbaramente e poi, sconvolto, dà fuoco alla casa e perisce nell’incendio; anche il “Giovane”, disperato perchè la “Padrona” non vuole lasciarlo libero, vuole suicidarsi: prende degli psichedelici, si cosparge di vernice blu, tenta di soffocarsi. Improvvisamente il figlio della “Padrona” viene investito e muore: la donna, commossa, decide di ridare al “Giovane” la libertà e l’antico lavoro.
Ritorno in patria del regista vietnamita naturalizzato francese con una lettura delle dure condizioni sociali e della difficile condizione di chi vuole conservare un lavoro pulitoed un omaggio al cinema più amato.
Dopo essersi inventato in uno studio francese un Vietnam della memoria (“Il profumo della papaya verde”), l’asiatico pariginizzato Tran Anh Hung è tornato a constatare di persona come vanno le cose nella sua patria; e poiché vanno male, anzi malissimo, il regista ne ha riportato uno strano film che, lo scrissi un po’ enfatizzando dalla Mostra di Venezia, inizia come De Sica (Furto di bicicletta), continua come Tarantino (sadismi da far impallidire le jene) e termina (finale ottimistico a parte) come Carmelo Bene: facce dipinte, orrori elisabettiani e gestualità surreale. A questo affresco aspro, iperviolento, frenetico ed effettato la giuria, colpita allo stomaco, ha assegnato il Leone d’Oro. Ma i premi, giusti o sbagliati, passano, i film restano; e allora sono tornato a vedere Cyclo sforbiciato per remore censoriali e televisive nelle scene più esposte, nel senso di conservare quattro coltellate dove ce n’erano venticinque. Del film ho apprezzato un’altra volta l’occhio cinematografico, la grintaccia, il piglio narrativo e soprattutto quello che Gadda chiamò “La cognizione del dolore”.Mentre mi hanno nuovamente disturbato il manierismo, le esuberanze di morbosità e la recitazione esecrabile. (Corriere della Sera, Tullio Kezich, 4/11/95)
Nel suo primo film, Il profumo della papaya verde, Tran Anh Hung aveva raccontato una piccola storia con due ambienti e quattro personaggi.Qui, tenta l’affresco.Lo fa raccontando personaggi in parte stereotipati, ma con una potenza e una ricchezza di stile che riscattano ampiamente certi passaggi un po’ forzati della trama. Proprio come in un videoclip, sembra che a ogni sequenza parta un nuovo film, diverso dal precedente, tanta è la varietà e la genialità di soluzioni cinematografiche. Il film è eccessivo, coloratissimo, molto violento in certi passaggi: è l’espansione in due ore secche della mitica battuta che apriva Apocalypse Now. Ora Saigon si chiama Città Ho-Chi-Minh, ma l’inferno continua, benvenuti. (Unità, Alberto Crespi, 1/11/95)
In Cyclo la trama e i personaggi sono poco più che un pretesto per disegnare un quadro vivissimo, tragico, colorato, rumoroso, del Vietnam di fine secolo: un girone infernale di miseria, crimine, squallore nati da un’illusione politica tradita che solo un’antica fede buddhista è secondo quanto ci mostra il regista nel finale è possono arginare. E spesso i nessi narrativi sono poco chiari un po’ per la laconicità dei personaggi (la colonna sonora del film è fatta più di suoni che di parole) un po’ per la furia narrativa di Tran Anh Hung, che sperimenta, rischia, azzarda, cita, monta fuori da ogni regola, senza preoccuparsi troppo di coerenze o di logiche, spingendo la violenza fino a esplosioni apocalittiche o a momenti ambiziosamente autoriali che tradiscono o contraddicono la vera forza del film: la sua qualiàà documentaria e la ricchezza della sua visione. Ma basterebbe la grande festa buddhista finale a mostrare il talento registico di Tran Anh Hung, oltre alla maestria del direttore della fotografia Benoit Delhomme è e basta la scena dell’elicottero rovesciato in pieno centro di Saigon a dimostrare come chi sa guardare trova cose sorprendenti. La censura ha chiesto alcuni piccoli tagli (uno schizzo di sangue qui, un maiale sacrificato là).Per una volta non c’è che da approvare. Se qualcosa manca al regista franco-vietnamita è il senso della misura, quasi avesse paura di non impressionarci abbastanza. Ci riesce, invece: il suo Vietnam ha la forza e la grandezza epica dell’Italia del neorealismo. (La Repubblica, Irene Bignardi)
“Sconvolgente, per violenza e realismo, dramma con aspirazioni letterarie del regista vietnamita Tran Ahn Hung, eccessivo Leone d’Oro a Venezia, che scopiazza, in bello stile, qualche celebre classico del cinema, mescolando senza pensarci troppo sangue e poesia. Peccato che l’esibizionismo più morboso soffochi spesso l’indubbio talento dell’ambizioso autore”. (Massimo Bertarelli, ‘Il giornale’, 1 settembre 2001)
Cyclò è un ragazzo che ha assunto il nome dal proprio mestiere di ciclotaxista nella caotica Ho Chi Minh Ville (ex Saigon). Cyclò si vede sequestrare la bicicletta con carrozzella da uno dei tanti racket mafiosi che dominano la città. Il ragazzo ha una Padrona a cui deve rifondere il danno subito. Finisce allora nelle mani del Poeta, capo di un gruppo di piccoli delinquenti. Cyclò dovrà picchiare, uccidere, prostituire la sorella ed estorcere denaro per saldare il suo debito. Vincitore della 52ô Mostra d’arte cinematografica di Venezia, questo film è un viaggio nei gironi infernali di una città che è uscita dalla guerra per piombare in un girone infernale di corruzione e violenza. La lezione di Scorsese si fonde con la memoria di De Sica per dar luogo a una storia freneticamente allucinata. Tran Anh Hung muta decisamente registro rispetto a Il profumo della papaya verde, dimostrando così di non voler riposare sugli allori del precedente successo di critica. (Giancarlo Zappoli )